Torri Gemelle 11/9: vent’anni dopo c’è ancora speranza

L’attacco alle Torri Gemelle fu immediatamente paragonato, per gravità e impatto psicologico, a quello a Pearl Harbor (anche questo fu subito fonte di teorie cospirative ante litteram). Nel 1961, vent’anni dopo Pearl Harbor, gli Stati Uniti erano la democrazia leader – indiscussa – del mondo occidentale, i legami con l’Europa non comunista erano più che saldi, si sentiva avverarsi la profezia di Tocqueville (quella dell’imporsi al mondo dei sistemi democratici) mentre il difficile confronto con l’Urss era vissuto con l’impegno di una missione di liberazione, in attesa di una primavera dei popoli che poi sarebbe in effetti arrivata. L’Europa aveva avviato il processo di integrazione, che poi è il più grande successo storico – per noi che ci viviamo – da secoli e secoli a questa parte.

Vent’anni dopo le Torri Gemelle gli Usa si ritirano dall’Afghanistan, abbandonano il Medioriente (a cominciare da Iraq e Siria) a se stesso, hanno rapporti con l’Europa altalenanti. La Nato non è più vista come pilastro e garanzia di stabilità, l’Unione Europea sopravvive molto meglio del previsto ai sovranismi, ma il fatto stesso che questi siano emersi con tanta virulenza rappresenta un dato inquietante. Potenze illiberali molto ma molto forti premono ai confini del mondo che invece si è dato alla democrazia. Tocqueville dorme sonni poco tranquilli.

Parabola triste e triste epilogo di un’arrogante illusione. Si pensava all’epoca che la Storia avesse scritto il suo capitolo finale, concedendo l’alloro a chi aveva sconfitto il comunismo, e quando si materializzò l’attacco orchestrato da al-Qaeda fummo tutti impreparati. Non solo dal punto di vista dell’intelligence e della sicurezza, ma della capacità di comprendere le radici profonde del fenomeno. Si optò per una sorta di svolta autoritaria, nel nome della guerra al terrorismo, dei nostri sistemi democratici (si pensi solo a Bush e ai suoi rapporti con la stampa e il Congresso).

Si lanciò una guerra al terrorismo che si tramutò, con la sciagurata missione in Iraq del 2003, in un’azione a largo raggio dai sapori neocoloniali affidata ai contractor. Peggio ancora, si usò in modo quasi blasfemo l’idea dell’esportazione della democrazia come se fosse un succedaneo dell’ideologia del fardello dell’Uomo bianco. Oggi ne paghiamo le conseguenze, noi occidentali, e le file dei disperati che spingono per salire sui voli da Kabul, come un tempo i sudvietnamiti cercavano la fuga da Saigon, sono l’immagine non solo della loro disperazione, ma del nostro fallimento epocale.

Se c’è una cosa in cui Osama bin Laden ha vinto, è stato proprio in questo imbarbarimento dell’approccio occidentale alle questioni internazionali, a questo vivere l’idea dell’estensione del sistema democratico trasformandola in un fatto ideologico. Le democrazie nascono dal cuore degli uomini che ad esse aderiscono, non le si impongono con la punta dei fucili. Noi, invece, nel nome della democrazia abbiamo giustificato il waterboarding e gli orrori di Abu Ghraib. Crimini che non potevano andare impuniti.

Eppure quei mille e mille morti delle Torri Gemelle, che si buttavano giù dall’ottantesimo piano o morivano urlando nel fragore dei grattacieli che crollavano su se stessi, ancora adesso come allora sono una sfida e un impegno. Perché se è vero che abbiamo fallito, in fondo è vero anche che gli Usa continuano ad essere una democrazia funzionante e forte nei suoi fondamenti, l’Europa è in grado di mostrare una dinamicità inaspettata ad ogni svolta critica, l’umanesimo della nostra cultura è vitale e in grado di darci un sano approccio antropologico ai grandi temi e alle grandi questioni. Insomma, fortunatamente nulla è perduto. Basta ricordarsi di un particolare di carattere urbanistico: in taxi, per andare a New York da Ground Zero al Palazzo di Vetro dell’Onu, basta una decina di minuti. Si può sempre ricominciare da lì.