Quale futuro per i cristiani in Medio Oriente?

Il 2 aqosto del 1990, l’Iraq di Saddam Hussein invadeva il Kuwait; cinque mesi dopo, nel gennaio del 1991, la Coalizione internazionale a guida Usa scatenava l’operazione Desert Storm.

Il trentesimo anniversario di questi eventi ci porta a riflettere su un Medio Oriente sempre più risucchiato dall’instabilità politica, economica e militare. Negli ultimi tre decenni le società arabe hanno vissuto l’esplosione dello scontro tra le due correnti dell’islam, i sunniti e gli sciiti e la diffusione del fondamentalismo religioso islamico che si è palesato tramite la corrente wahhabita dominate in Arabia Saudita e le organizzazioni terroristiche al Qaeda, che ha condotto attacchi in tutto il mondo, e sedicente Stato Islamico che ha invece puntato a ricreare un califfato tra Iraq e Siria.

In questo lasso di tempo sono avvenute anche le cosiddette primavere arabe che, con l’iniziale sostegno dell’Occidente, hanno portato alla caduta di alcuni uomini forti della regione, come Mubarak in Egitto, Ben Ali in Tunisia e Gheddafi in Libia. Tutti uomini discutibili e macchiatisi di gravissime violazioni dei diritti umani ma dal pedigree laico, che ha garantito una relativa libertà alle minoranze religiose.

Se a tutto questo aggiungiamo anche la grave crisi economica che attanaglia quasi tutte le società arabe, allora viene scontato comprendere perché l’esodo dei cristiani dal Medio Oriente sia diventato un fenomeno di proporzioni che non hanno precedenti per i fratelli nella fede di quelle terre che sono la culla del cristianesimo.

Per tutto il Novecento – così come nei secoli precedenti – in Siria, Libano, Iraq, Egitto e in tutta la Terra Santa (Israele e Territori palestinesi) i cristiani non sono stati un semplice minoranza religiosa ma parte integrante delle nazioni arabe che si formarono dopo la caduta dell’Impero Ottomano e il periodo di protettorato delle potenze Occidentali. Basta pensare che uno dei fondatori del partito Bath – movimento del nazionalismo panarabo e socialista – fu Michel Aflaq, cristiano ortodosso di Damasco.

I Cristiani in Iraq erano circa 1.500.000 nel 2003, ovvero circa più del 6% della popolazione del paese, in calo rispetto al 12% del 1947, con una popolazione di 4,7 milioni di persone. Oggi invece sono ridotti a circa 500mila unità e la loro fuga dalla Piana di Ninive e dalle altre roccaforti cristiane è tamponata solo grazie ai progetti di Aiuto alla Chiesa che Soffre, grazie ai quali sono stati ricostruiti villaggi e chiese distrutti dall’Isis.

Si stima poi che prima della guerra in Siria i cristiani rappresentassero il 10% della popolazione e che, dopo l’inizio del conflitto circa 900mila di essi siano stati costretti a lasciare il Paese. Intanto si registra una contrazione dei cristiani anche in Libano. In tutta la regione, il “Paese dei cedri” ha la più massiccia comunità cristiana in rapporto alla popolazione (circa il 30%) ma la crisi economica sta portando molti giovani cristiani a prendere le via dell’emigrazione.

L’esodo continuo di migliaia di fedeli rischia quindi di portare all’estinzione del cristianesimo del levante, erede di quelle prime comunità formate dai discepoli che hanno dato vita alla Chiesa universale.

Se non si inverte questo trend, avremo un Medio Oriente senza cristiani e quindi più povero e diviso, perché privato di una componete della popolazione economicamente dinamica, mediamente più istruita ma soprattutto capace di fare da collante tra il mosaico di etnie e confessioni religiose che è alla base delle società arabe. Non è un caso che le Chiese cristiane siano in prima linea nelle iniziative di pacificazione e dialogo in Iraq e Siria. Ad Aleppo i francescani stanno portando avanti perfino un progetto per il reinserimento nelle società degli orfani dei miliziani dello Stato Islamico. Per non parlare dell’opera insostituibile di formazione delle scuole cattoliche in Terra Santa e in altri Paesi della regione.

Insomma i cristiani non sono stranieri, non sono ospiti ma persone che hanno diritto a piena cittadinanza e rappresentanza in tutte le nazioni del Medio Oriente. Permettere loro di vivere pacificamente, in un contesto multiculturale, sarà la pietra d’angolo per la stabilità del mondo arabo. Ogni famiglia cristiana che farà ritorno in quelle terre sarà un mattone per la pace, per fare questo però anche l’Europa e gli Stati Uniti dovranno comprendere l’importanza di questa sfida, partendo dalla presa di coscienza che l’esodo dei cristiani è una sciagura per tutta la comunità internazionale.