Sport e fratellanza, Mornati (Coni): “Oggi manca lo spirito dell’oratorio”

Tra auspici e difficoltà, le discipline sportive sono il futuro. Il segretario generale del Coni a Interris.it: "C'è bisogno di portare lo sport a scuola"

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Non di rado, alla misurazione della grandezza di un Paese, contribuisce anche la sua cultura sportiva. In questo senso, di sicuro, l’Italia ha avuto modo di farsi rispettare e non solo in ambito calcistico. Il punto è che, come spesso accade, la disciplina sportiva in sé è solo il veicolo del successo. Alla base c’è la società stessa, l’interpretazione del vivere comune, il welfare nazionale, la possibilità o meno non solo di iscrivere il proprio figlio a un centro sportivo o a un corso di qualsiasi disciplina ma, addirittura, di riuscire a mettere al mondo dei figli in grado di praticarla.

La Giornata internazionale dello Sport per la pace e lo sviluppo non può essere sganciata dal ruolo cruciale dell’attività sportiva come strumento di trasmissione di valori fondanti (ed edificanti) ma nemmeno dalla componente sociale che vi contribuisce. Se lo sport italiano è un’eccellenza in determinati ambiti, in altri occorre ricostruirne l’assetto culturale. E, come spiegato a Interris.it dal segretario generale del Coni, Carlo Mornati, la base di partenza è quella di sempre: la scuola.

 

Lavorare alla preparazione di un grande evento significa vivere lo sport. In questo modo si riesce a coglierne al meglio il ruolo auspicato nella pace e nella cooperazione?
“La percezione esterna non è quella interna. Lo sport è intriso di questi valori e nel praticarlo già si percepiscono. Quindi è difficile dire come lo si prepara, perché è qualcosa che si vive nella quotidianità. Rispetto, fratellanza, comunità e aggregazione sono valori che non si spiegano ma chi pratica sport li vive. Un evento come le Olimpiadi è fondato su questi valori. Se pensiamo al motto olimpico, si fa riferimento a una comunità vera, che addirittura vive lo stesso ‘spazio fisico’. Sono 206 Paesi di tutto il mondo: culture, religioni, tutto diverso ma accomunato da un senso di fratellanza per venti giorni che, per uno sportivo, sono tutta la vita. In quei giorni competi con un avversario esclusivamente di campo, perché senza di lui non potresti far le gare. È il motivo per cui lo sport ha un valore educativo fondante”.

Eppure, spesso si tende a utilizzare gli strumenti di comunicazione per scontrarsi piuttosto che condividere. Il che per lo sport è un paradosso…
“È vero ma, molto spesso, chi fa comunicazione non vive l’ambiente dello sport. I valori che sono intrisi in questo mondo, spesso sono poco percepiti dall’esterno. Quando occorre insegnare la cultura della sconfitta si può ricorrere a chi non ha mai praticato. Un atleta che tutti i giorni si misura con sé stesso o con l’avversario, a tutti i livelli, in qualche modo rischia di ‘perdere’ tutti i giorni. Per questo non ha bisogno di imparare questo tipo di cultura. È una sorta di perdente di successo: Michael Jordan ha vinto cinque anelli ma ne ha persi venti nelle sue venticinque stagioni… Lo sport è qualcosa che si vive, un po’ come la religione. Chi vive certi valori, non ha bisogno che gli vengano spiegati”.

Lo sport, quindi, è realmente uno strumento di cooperazione e rispetto reciproco. Del resto, di buoni risultati ce ne sono stati negli anni…
“È sotto gli occhi di tutti. Basti pensare alle Olimpiadi invernali di PyeongChang, nel 2018, unico episodio di riavvicinamento tra le due Coree, che addirittura si presentarono in un’unica delegazione. Lo sport è uno strumento educativo, di avvicinamento tra popoli. Il nostro grosso limite in Italia è che lo viviamo molto poco, a scuola in primis che, in teoria, dovrebbe esserne la culla. È tutto affidato all’iniziativa personale delle famiglie. A mio avviso, diventeremo un Paese progredito nel giorno in cui, tra le materie didattiche, vi sarà anche lo sport praticato”.

Eppure, se l’obiettivo è trasmettere valori edificanti, la scuola dovrebbe essere il punto di partenza…
“Anche perché, obiettivamente, non mancano le testimonianze. Anche da un punto di vista istituzionale è riconosciuto il valore educativo dello sport. Addirittura una parvenza l’hanno messa anche in Costituzione, nei termini della pratica sportiva, che non è la stessa cosa. Penso che praticare una disciplina sportiva abbia un valore educativo unico, con una serie di valori trasmessi che non possono essere appresi stando seduti dietro un banco. E penso che, tra i precursori, vi sia stata proprio la Chiesa cattolica. L’oratorio è nato come uno strumento di aggregazione, per far vivere quei valori spiegati in parrocchia”.

La parola chiave è proprio “disciplina”. L’Educazione fisica scolastica, per come è concepita, corre sempre il rischio di essere un’ora di svago. Il che è un bene ma difficilmente si concilia con il senso ultimo dello sport…
“Io sono contro la pratica dell’attività motoria in senso lato. C’è la pratica di una disciplina sportiva, fatta di regole. Perché praticando sport si imparano regole ma anche socialità e socializzazione. Le regole sono fondamentali ma si imparano solo mettendole in pratica. E capirle significa rispettarsi a vicenda”.

Quanta fatica fa il nostro Paese a tenere il passo?
“Da questo punto di vista l’Italia è molto indietro. Lo sport ha un’induzione meramente familiare: le famiglie si fanno carico dell’onere, mentre le associazioni sportive sono il nostro tessuto più importante sul territorio, dove sono nella quasi totalità dei casi dei volontari che, mettendosi a disposizione, diventano allenatori ed educatori. Abbiamo un mondo sommerso di volontariato e di famiglie che si sobbarcano oneri extra-scuola”.

Con la riduzione della componente parrocchiale è venuta a mancare una base importante. Forse si è sottovalutato questo aspetto?
“Quando gli oratori erano più frequentati dai giovani, la pratica sportiva era più semplice. Tanti professionisti della mia generazione hanno effettuato il passaggio dai campi dell’oratorio a quelli delle società professionistiche. Tutto questo tessuto, oggi, è molto in difficoltà. C’è un decremento demografico importante, le famiglie sono in crisi e, per questo, lo sport in Italia fatica”.

Il paradosso è che, negli ultimi anni, nonostante l’inverno demografico abbia tolto molto al ricambio generazionale, l’Italia sia riuscita a produrre picchi di eccellenza.
“Assolutamente. Il lavoro di vertice, però, non va confuso con quello di base. Molte delle discipline sportive che danno lustro all’Italia, come dimostrato dai risultati olimpici, fanno parte di un apice della piramide e, peraltro, di ambiti fortemente specialistici, dove il più delle volte ci si concentra su un capitale umano molto ristretto. Abbiamo indubbiamente una capacità tecnica infinitamente superiore ai nostri rivali. Se però guardiamo il dato degli sport di massa, quelli di squadra, l’Italia arranca da morire. Oggi, gli sport che dovrebbero avere un accesso agevolato proprio perché di massa, paradossalmente sono più in difficoltà. Nel bene e nel male, il calcio è il nostro termometro”.

In sostanza, di cosa ha bisogno lo sport italiano?
“C’è bisogno dello sport a scuola, come fanno anche alcuni Paesi nell’Est Europa o nel Regno Unito. Tre o quattro ore di sport praticato alla settimana sarebbe l’ideale. Bisogna intercettare i ragazzi e far fare loro attività fisica come pratica di una disciplina sportiva. Occorre uno sforzo, anche nella consapevolezza delle problematiche presenti, ad esempio con le palestre”.