La Flat Tax, al di là di miti e suggestioni

Come già successe qualche anno fa, anche in questa campagna elettorale la Lega Nord, per bocca del suo leader Matteo Salvini, rilancia nell’agone politico la proposta di riformare il sistema impositivo con l’introduzione di una Flat Tax anche per i lavoratori dipendenti, dopo che, nel corso degli anni, è stata adottata per le imprese, con l’IRES, e per le partite IVA a regime forfettario. A onore del vero non si può parlare di un’idea nuova, già Antonio Martino ipotizzava l’introduzione di una modalità impositiva siffatta nei primi anni ’90 inserendola tra i punti programmatici di discussione dell’allora neonato Polo delle Libertà/Polo del Buongoverno ma che, poi, è stata accantonata per muoversi nel sistema già strutturato di aliquote progressive.

Un sistema di Flat Tax, in pratica, va a eliminare ogni tipo di scaglione sulle imposte reddituali per stabilire un’unica aliquota che possa essere applicata a tutti semplificando il più possibile la determinazione degli importi che questi dovrebbero corrispondere, a titolo fiscale, allo stato. Detto così, un sistema del genere sarebbe assai interessante per tutti, poiché renderebbe molto più agevole sia il rapporto con il fisco da parte della cittadinanza sia gli eventuali controlli da parte delle autorità sugli importi versati ma un problema, sollevato da molti commentatori, risiede nel dettato costituzionale stesso in quanto, all’art. 53, viene esplicitamente previsto un sistema progressivo di contribuzione.

Posto questo caveat, comunque, la Corte Costituzionale ha più volte stabilito che il criterio di progressività riguarda il sistema e non la singola imposta, pronunciamento anche logico perché, in caso contrario, tutte le gabelle a importo fisso, “regressive” quindi perché vanno a impattare in maniera maggiore sui redditi più bassi, come il c.d. Canone RAI o le imposte di bollo ricadrebbero immediatamente nell’incostituzionalità obbligando il risarcimento degli importi pagati, anche negli anni passati, a ogni cittadino.

Di qui a pensare a un regime di imposta reddituale basato su una Flat Tax, quindi, il passo è breve ma occorre stabilire quale possa essere l’aliquota di equilibrio. La Lega era partita proponendo un 20% per poi giungere al 15% che è il livello impositivo ipotizzato nella proposta; per mantenere, comunque, un modello di progressività ed evitare un qualsiasi ricorso alla Consulta, come in altri casi già a regime, basterebbe prevedere una vasta no tax area, cioè un primo scaglione di reddito esentasse, e l’insieme di detrazioni e deduzioni esistenti che, però, potrebbero richiedere una razionalizzazione per essere inserite in un sistema più semplice e, nel possibile, intuitivo.

Fin qui il dibattito sembrerebbe filare perfettamente liscio anche se, a voler essere pignoli, la questione Flat Tax può lasciare qualche perplessità: come è possibile che sia sostenibile una tassa piatta al 15% che risulta essere di 9 punti percentuale inferiore all’aliquota IRPEF media italiana che è pari al 24%? Vediamo due dati.

Il gettito fiscale è pari a circa il 43% del PIL ma le imposte sul reddito, IRPEF, corrispondono solamente a circa il 15% del PIL, quindi rappresentano solo un terzo degli introiti dello stato. La perdita stimata derivante dall’introduzione dell’aliquota unica, quindi, sarebbe del 12% complessivo del gettito fiscale che, però, non potrebbe essere coperta sia da un aumento degli introiti da parte delle imposte indirette sia da una possibile crescita del sistema economico dovuta a maggiori consumi e investimenti, derivanti sia dalle risorse lasciate “nelle tasche degli italiani” e da un miglioramento delle aspettative degli operatori economici sullo sviluppo futuro ma necessiterebbe di una rimodulazione strutturale della spesa, quella spending review di cui s parla da anni ma che nessuno, realmente, è mai riuscito anche solo ad abbozzare.

Oltre a questo, poi, va aggiunto che la mera introduzione di un sistema di flat tax a livello reddituale non avrebbe, credibilmente, questi grandi effetti strutturali nel rilancio del Paese poiché resterebbe in piedi il sistema fiscale “bizantino” vigente, con tutti i “mille” balzelli esistenti.

Una soluzione vera, quindi, si dovrebbe ricercare in una vera e propria riforma fiscale, accompagnata da un decentramento amministrativo e impositivo che già era previsto con il c.d. “federalismo fiscale” sancito dall’art. 119 della Costituzione vigente e che doveva essere attuato con la Legge 42/2009 ma che tutt’oggi resta lettera morta. In pratica si tratterebbe di unificare i centri di spesa e di prelievo introducendo una completa autonomia fiscale e di spesa unite a un divieto di trasferimenti cross-boarder tra i vari comparti amministrativi, con la conseguente possibilità di default degli stessi e quella di accedere alle procedure di risanamento che dovranno essere previste per legge.

La Costituzione già stabilisce tre centri principali cioè Stato, Regione e Comune visto che la Legge Del Rio, di fatto, ha annullato il peso delle Province (Legge 56/2014) a cui potrebbe essere facilmente applicato un sistema basato su una Flat Tax e relativi moltiplicatori sul modello svizzero, non prima di aver eliminato tutti quei micro tributi che, spesso, sono più costosi per lo stato, tra incasso e controllo, del loro effettivo gettito.

Ipotizziamo, quindi, che lo stato si finanzi imponendo un’aliquota fissa del 10%, la regione abbia un moltiplicatore che può applicare fissato in un range tra 0.5 e 1 mentre il Comune un moltiplicatore fra 0.1 e 0.5 si arriverebbe a un’imposizione massima sui redditi del 25% a cui associare una no tax area fino a 5’000 € e un’aliquota di solidarietà sopra i 75’000 € annui del 2% che vada a finanziare un fondo per il sostegno di calamità naturali o gravi recessioni e indisponibile altrimenti. Tutto questo, ovviamente, dovrebbe essere accompagnato dal mantenimento e dall’efficientamento del sistema di sgravi oggi esistente e dall’abolizione di ogni ulteriore imposta locale, dalle addizionali all’Imu e alla TARI, lasciando, poi, anche la determinazione delle assunzioni legate al fabbisogno di ogni amministrazione con concorso locale e non accentrato.

Un sistema similare, che andrebbe accompagnato anche a un limite tassativo al prelievo posto in Costituzione, oltre a responsabilizzare i centri di spesa che non avrebbero possibilità di spendere più risorse di quelle riscosse contribuirebbe anche alla creazione di quella certezza contributiva che aziende e cittadini invocano da anni e che potrebbe rappresentare un trampolino per il rilancio del Paese, anche se, ricordiamolo, sarebbe condizione necessaria ma non sufficiente.