Don Gino Rigoldi: “I miei 80 anni nella nuova Casa per il disagio psichiatrico giovanile”

Si commuove mentre racconta del ragazzo che con la tragedia della sua morte gli ha ispirato la creazione in Lombardia del primo centro per ragazzi (“di area penale”, come si legge nei rapporti degli istituti) a rischio di autolesionismo ed ex detenuti con problemi psichiatrici. Don Gino Rigoldi, da mezzo secolo cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano festeggia gli 80 anni con un atroce dolore nel cuore da cui è nata una struttura senza precedenti.  Le condotte autolesionistiche non vanno sottovalutate sia per il rischio di una escalation dei comportamenti auto-aggressivi fino ai comportamenti suicidari sia perché segno di una sofferenza psichica del bambino e dell'adolescente. Un ruolo significativo nel cogliere i segnali di allarme, oltre alla famiglia, possono averlo il personale scolastico e il gruppo dei pari.

Cosa manca negli istituti minorili

In Terris lo incontra mentre è alle prese con le autorizzazioni comunali per la nuova Casa del disagio psichiatrico giovanile. Sulla scrivania ha studi scientifici e indagini sociologiche boom di casi di autolesionismo. La carenza di consulenze psichiatriche negli istituti minorili è da sempre una sua battaglia. “In ciascun istituto minorile serve un contesto di consulenza psichiatrica stabile- spiega don Rigoldi-. Ci sono detenuti che hanno grosse depressioni, soggetti fragili che arrivano ad atti di autolesionismo. Non può essere compito della polizia penitenziare trattare questi casi, serve un’assistenza specialistica continuata”. Don Virginio Rigoldi (detto Gino) è nato a Milano nel 1939. Ordinato prete nel 1967, nel 1972 ha chiesto e ottenuto di diventare Cappellano dell’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, incarico che tuttora esercita. Nello stesso anno ha iniziato a ospitare in casa sua un primo gruppo di minori che uscivano dal carcere senza casa e famiglia, coinvolgendo i Servizi Sociali e un gruppo di volontari perché nascessero risposte concrete a favore dei troppi giovani abbandonati. In qualità di cappellano, ha ininterrottamente collaborato con gli educatori del carcere per realizzare i progetti di reinserimento sociale dei detenuti, contribuendo in particolare all’individuazione dei percorsi scolastici e formativi, del reinserimento lavorativo e della soluzione al problema abitativo. Nel dicembre 1973 è stata fondata l’associazione Comunità Nuova onlus di cui don Gino Rigoldi è da allora presidente, contribuendo all’ideazione e alla progettazione degli interventi sociali. Dal 1997 al 2004 è stato coordinatore regionale delle comunità diaccoglienza (Cnca); ha ricevuto l’onorificenza di cittadino benemerito del Comune di Milano, di Cavaliere della Repubblica e, nel 1999, l’Ambrogino d’oro. Ha pubblicato numerosi libri con i principali editori italiani e nel 2004 ha ricevuto il Premio Martoglio nella sezione della letteratura per ragazzi.

Chi dovrebbe stare fuori

Intervistare don Rigoldi è come immergersi in un fiume di iniziative, testimonianze, frammenti di vita condivisa con generazioni di ragazzi difficili. “Innanzi tutto in un carcere minorile la prima cosa da fare è far uscire da lì i giovani con patologie psichiatriche: vanno curati in strutture apposite e non reclusi– afferma don Rigoldi-. Mi sono accorto che mancano comunità e strutture diurne che supportino le famiglie consentendo il più possibile di tenere in casa questi ragazzi”. È fondamentale non assumere un atteggiamento giudicante né stigmatizzare il comportamento autolesivo, in modo da favorire la richiesta di aiuto a specialisti per un'adeguata valutazione e presa in carico terapeutica. È necessario mettere in atto misure di monitoraggio del rischio e del danno rimuovendo armi, farmaci e oggetti potenzialmente dannosi dalla portata del bambino o del ragazzo/a, ed impedire l'uso di alcol e droghe.  La voce si incrina per l'emozione e il racconto riannoda i fili personali di una memoria angosciante. “Da cappellano di un carcere minorile e da responsabile di comunità ho sofferto per tante situazioni atroci- sospira don Rigoldi-. Ma una in particolare mi ha spinto a creare una nuova struttura per il disagio mentale giovanile. Ho avuto in casa mia un 18enne pesantmente tossicodipendente con una situazione familiare disastrata. Aveva fatto il giro degli istituti penitenziari e degli ospedali, tra allontanmenti repentini e continui ricoveri d'urgenza in ambulanza nei reparti di terapia intensiva a Cinisello Balsamo e a Monza. L'ultima volta lo abbiamo trovato in stato di incoscienza a Monza e lo straordibario psichiatra del pronto soccorso dopo verle tentate tutte per salvarlo ci disse che i danni al cervello erano ormai irreversibili. Mi vengono i brividi quando ripenso alle sue parole:”Non c'è più nulla da fare, lasciamolo andare“. Sono centinaia in Italia i ragazzi come lui che hanno bisogno di comunità per adolescenti a doppia diagnosi e cioè centri non solo educativi ma in grado di costruire un rapporto personale con ciascuno di loro. Non strutture impersonali e con decine di ospite, ma piccoli nuclei palsmati su misura del disagio personale”.  All'interno della sanità lombarda e dei servizi a sostegno dei minori a rischio, don Rigoldi ha trovato “professionisti di profonda sensibilità e straordinaria compenza come la dirigente Giovanna Costantino”. Lo scopo del trattamento è prevenire l'escalation, ridurre o eliminare i comportamenti autolesivi, ridurre o eliminare altri comportamenti a rischio associati, migliorare il funzionamento sociale, le capacità di adattamento, la qualità di vita o le condizioni mediche associate, nel caso in cui siano presenti. Gli interventi psico-sociali che hanno mostrato efficacia nel ridurre gli episodi di autolesionismo sono al momento la terapia dialettico-comportamentale (Dbt) e la terapia basata sulla mentalizzazione (Mbt). 

Come nasce dal Casa per il disagio

Alle porte di MIlano, in una grande villa sequestrata dallo Stato a un clan della criminalità organizzata, sta prendendo forma in queste settimane un tipo di comunità terapeutica per minori che finora non esisteva. “Con queste caratteristiche e finalità a Milano è attivo un solo centro: Villa Luce ed è portata avanti da una congregazione di suore, ma è una struttura esclusivamente femminile- evidenzia don Rigoldi-. Per i maschi non esite nulla del genere. Per questo adesso stiamo discutendo come attivarci concretamente e se articolarci in una comunità, in un centro diurno o in entrambe le modalità. Stiamo assumendo educatori con contratti a tempo indeterminato e non è facile reclutare personale adatto a mansioni così delicate, a quotidiano contatto con minorenni estremamente fragili”. Tipicamente l'autolesionismo esordisce nella fascia di età tra i 12 e i 14 anni e diversi studi identificano un aumento dell'incidenza durante l'adolescenza con tendenza a diminuire o risolversi dopo i 20-25 anni. Sebbene l'autolesionismo sia soggetto a fenomeni di emulazione tra pari, nella maggior parte dei casi è frutto di una difficoltà nella regolazione degli affetti negativi e/o nelle modalità di adattamento con le quali si fronteggiano situazioni stressanti. Sono le cosiddette strategie di “coping”, vale a dire i meccanismi psicologici utilizzati per far fronte a problemi personali ed interpersonali allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress. L'autolesionismo si associa a depressione, vittimizzazione sociale e problemi familiari, disturbi del comportamento alimentare, uso di sostanze, disturbi del comportamento, disturbi della personalità. 

Le radici di un male oscuro

Nessun farmaco al momento ha mostrato una efficacia specifica per il trattamento dei comportamenti autolesionistici, tuttavia all'interno di un trattamento multidisciplinare la terapia farmacologica può essere necessaria per il trattamento dei disturbi psicopatologici associati. Don Rigoldi e il suo staff stanno attingendo dalle migliori conoscenze scientifiche sul tema. “Stiamo studiando perché l'esperienza sul campo va integrata con le nuove acquizioni terapeutiche sperimentate in Italia”, sottolinea don Rigoldi mentre ci mostra una libreria piena zeppa di studi e ricerche. A Roma per contrastare la piaga sociale dell’autolesionismo la professoressa Maria Pia Casini coordina l’unità operativa di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza in collaborazione con l’istituto per la salute Bambino Gesù. “L'autolesionismo è un fenomeno che negli ultimi anni interessa sempre più gli adolescenti e i giovani e che si caratterizza per la presenza di atti intenzionali volti ad arrecarsi danni fisici in grado di produrre sanguinamento, lividi o dolore che vengono effettuati senza una esplicita intenzione di uccidersi- spiega la professoressa Casini-. Le modalità più comuni possono essere procurarsi tagli, colpirsi, mordersi, strapparsi i capelli, grattarsi la pelle e provocarsi bruciature”. Tensione, ansia per risolvere difficoltà interpersonali o ancora come forma di autopunizione sono spesso le motivazioni riportate per giustificare il danno arrecatosi con il proposito di ridurre emozioni negative. La presenza di comportamenti autolesionistici, costituisce uno dei fattori di rischio per il suicidio/tentativo di suicidio in adolescenza. Gli adolescenti con comportamenti autolesionistici, soprattutto se ricorrenti, mostrano con maggior frequenza altri comportamenti di ricerca/esposizione a rischi (comportamenti sessuali promiscui, abuso di alcool e droghe, assunzione incongrua di farmaci) 

Il ruolo della scienza 

“Il percorso d'inquadramento diagnostico in caso di condotte potenzialmnete suicidarie deve prendere in considerazione diversi aspetti- puntualizza la professoressa Maria Pia Casini-. L'inquadramento delle condotte autolesionistiche deve permettere di pesare sia il rischio di danno fisico connesso con le condotte sia la sua relazione con le strategie di regolazione emozionale e interpersonale dell'individuo” Serve la valutazione del rischio suicidario del ragazzo attraverso una specifica indagine in merito alla presenza di pensieri di morte, desiderio di morte fino alla vera e propria ideazione suicidaria. E c'è bisogno di una complessiva valutazione psicopatologica. Infatti, aggiunge la professoressa Casini, “per inquadrare le difficoltà di regolazione emozionale non si può prescindere da tutte le condizioni psicopatologiche che modificano la qualità degli affetti quali i disturbi dell'umore, o che ne alterino la capacità di regolarli e di regolare il comportamento quali i disturbi del comportamento, i disturbi di personalità, abuso di sostanze e alcool”. Il passo successivo è approfondire i fattori di stress psicosociale quali conflittualità familiare, bullismo e cyberbullismo, condizioni di maltrattamento ed abuso. Aspetti che alterando in maniera significativa i livelli di stress cui è esposto il ragazzo/a, ne possono compromettere la capacità di regolazione emotivo-comportamentale. La diagnosi è essenzialmente clinica e viene effettuata attraverso una raccolta anamnestica dettagliata, l'osservazione comportamentale del bambino/adolescente, i resoconti dei genitori. Il trattamento deve essere multidisciplinare e quanto più possibile individualizzato sulle necessità del bambino o dell'adolescente e sviluppato in collaborazione sia con il paziente che con i familiari e le altre figure significative di riferimento.