Storia di un inviato: il ricordo di Ettore Mo

Il giornalista del Corriere della Sera, Ferruccio Pinotti, racconta a Interris.it la figura del grande reporter, figura centrale del giornalismo del Novecento, scomparso oggi a 91 anni: "Colpiva la sua grande umiltà"

Ettore Mo

“Devi avere la vocazione”, è chiaro. Ma devi anche “imparare a farlo bene”, come un lavoro artigianale. La chiave di lettura del giornalismo lasciata da Ettore Mo è tutta qui. Tanto chiara quanto – solo apparentemente – semplice. Pioniere del concetto di inviato speciale, prima ancora che della figura stessa, il grande giornalista piemontese e storica firma del Corriere della Sera, scomparso a 91 anni, ha incarnato per anni i tratti somatici e culturali del giornalista di strada. Quello con “le suole consumate” e un trascorso speso tra cronaca e formazione di coscienza critica, sugli uomini e sulle cose. Senza dimenticare un occhio attento sui tempi e sui cambiamenti, sensibile al fascino dell’avvicendarsi delle epoche. Quelle che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si passarono il testimone in una Londra che svestì i panni seriosi dell’establishment per indossare gli abiti variopinti della rivoluzione sociale. Soprattutto al ritmo di musica.

Ettore Mo, il ricordo

Ettore Mo visse quella Londra lì, giovane aspirante giornalista “vice, del vice, del vice”, come disse di recente al “suo” Corriere, dopo aver sperimentato su sé stesso il confronto con la vita vera: “Ettore Mo – ricorda a Interris.it Ferruccio Pinotti, giornalista del Corriere della Sera – era senza dubbio una figura di grande corrierista, grande inviato, grande collega sia sul piano professionale che umano. La sua è una storia di umiltà, sacrificio, abnegazione partendo realmente dal nulla. Mo era un autodidatta, uno che non aveva compiuto studi regolari e che aveva fatto tantissimi mestieri. Da giovane era stato cameriere di bordo, aveva insegnato francese in Scandinavia… Dopodiché decise di spostarsi a Londra per confrontarsi con quel mondo anglosassone che già allora rappresentava il top del giornalismo”. Anche nella Londra degli anni Sessanta si sgomita. Mo “si arrangia con dei lavoretti” finché “non vede un annuncio sull’Evening Standard con il quale si cercava un babysitter, messo dalla moglie del famoso corrispondente e poi direttore del Corriere Piero Ottone”.

La voce della Swinging London

Il primo passo nel giornalismo inizia con toni di vicinanza reciproca, tipici dei connazionali che si incontrano in trasferta: “Si presenta questo ragazzo e, scherzando, Ottone gli dice: ‘Veramente noi cerchiamo una ragazza’, sentendosi rispondere: ‘Non importa, il lavoro lo faccio io perché voglio vivere a Londra, scrivere delle storie, fare come Hemingway. Anzi – dice – le ho portato dei racconti”. Così comincia la collaborazione di Ettore Mo prima di tutto con Piero Ottone, di cui faceva lo stringer, l’aiutante, colui che andava a caccia di notizie nella ‘Swinging London’. Riuscì a farsi apprezzare, venendo pagato cinquanta lire per ogni riga pubblicata. Inizialmente i pezzi erano per Ottone, poi iniziano a uscire con le sue sigle”.

“Grazie Mo”

Il ruolo di stringer va avanti alcuni anni. Una sorta di praticantato fuori sede, quanto basta per conoscere la sua futura moglie e ampliare la propria reputazione anche al di là della Manica. “A un certo punto, l’allora direttore del Corriere, Spadolini, lo vuole a Milano. Non essendo giornalista professionista, lo mandano a Roma a fare praticantato”. L’approdo in Via Solferino, con la qualifica in tasca e i trascorsi da cantante che lo precedono, coincide con l’assegnazione alla redazione Spettacoli, mansione che accetta di buon grado: “Non fece una piega. Anzi, farà una bellissima intervista a Dario Fo che si concluse in maniera spiritosa con un ‘Grazie Fo’ al quale l’attore risposte ‘Grazie Mo'”.

L’amico del Leone

Inviato lo diventerà più tardi, in un’altra fase di cambiamento epocale, durante il passaggio chiave ai primordi della società globalizzata, che accompagna alla lettura del giornale la comodità delle notizie via tv. L’anno è il 1979. “Si mette in gioco, si mette in testa di andare in Afghanistan, dove diventa amico del famoso combattente Aḥmad Shāh Masʿūd, detto il ‘Leone del Panshir’, di cui sarà confidente e del quale racconta le gesta. Da quel momento inizia a viaggiare in tutto il mondo, raccontando i conflitti, in libri molto belli, come ‘Sporche guerre’. Ma quello che colpiva, quando lo incontravi, era l’incredibile simpatia, umiltà, il dare consigli ai giovani. L’andare a bere un caffè al bar… Faceva parte di quella stirpe di grandi inviati che hanno fatto storia del Corriere che nasceva dalla passione. La stessa che, ad esempio, animò una collega come Maria Grazia Cutuli, che andava a realizzare servizi all’estero a spese sue, ma anche Massimo Alberizzi, ancora molto impegnato sul fronte del giornalismo”. Una tradizione fatta di “suole consumate e umiltà”.

Un giornalismo “alla Mo”

Se una vita può attraversare i tempi e i mutamenti, forse può farlo anche una professione. Magari senza perdere troppo di sé stessa. E magari prendendo spunto dai vecchi maestri, da una carriera alla Ettore Mo. Forse irripetibile ma di sicuro ispiratrice: “Chiaramente oggi c’è una deriva che premia l’arrivo al giornalismo attraverso le scuole, i master che danno l’accesso al tanto sudato praticantato, seguito poi dall’esame di Stato. Questo è prevalentemente il canale di accesso ai giornali, si diventa professionista. Personalmente sono molto critico, non perché queste scuole non ti diano nozioni di base, ma danno l’idea di un giornalismo acritico e preconfezionato, in cui basta essere piccoli tecnici della notizia e imparare a usare gli strumenti del web, sempre più importanti. Ma non insegnano il giornalismo ‘alla Mo’, che racconta le storie, le sofferenze, che si sporca le mani”.

Tuttavia, come si diceva, la prospettiva resta aperta, almeno finché regge la passione: “Non è impossibile costruirsi una carriera alla Mo. Ci sono giovani che prendono e vanno per conto loro. Fanno una fatica enorme, si espongono a grossi rischi, pagati poco o non pagati. È forse venuto meno quel senso di cavalleria che portava ai direttori a riconoscere il lavoro fatto e ad assumere chi si era messo in gioco così tanto. Siamo al paradosso di avere freelance che fanno cose bellissime ma che restano esterni alle redazioni dei grandi giornali”.