La Turchia di Erdogan a due anni dal golpe

Recep Erdoğan ha giurato sulla Costituzione turca in qualità di presidente plenipotenziario, da ora in poi legittimato anche dalla legge a poter esercitare un potere vastissimo, sconosciuto anche a molti dei suoi colleghi provenienti da Paesi tradizionalmente molto meno autoritari della Turchia stessa. La definitiva consacrazione dell’epopea del “Sultano” arriva proprio allo scoccare dei due anni dal fallito golpe di Istanbul, nel quale una parte dell’esercito turco tentò, fallendo clamorosamente, di rovesciare proprio Erdoğan ed il suo potentissimo apparato.

I dettagli clamorosi di quella giornata di tumulti fanno ancora discutere: a distanza di tempo, risulta difficile interpretare gli eventi sotto una lente certa, dal momento che molti analisti hanno caldeggiato diverse ipotesi, tutte plausibili e, al tempo stesso, improbabili. Quella che per certi versi affascina di più è senz’altro lo scenario false flag, secondo il quale lo stessopresidente Erdoğan avrebbe indotto gli apparati meno fedeli ad uno strampalato tentativo di colpo di Stato, per poi tornare in sella, accusare dissidenti politici riparati all’estero (come nel caso di Gülen) e restringere ulteriormente diritti civili e sociali, in particolar modo nei confronti dei suoi oppositori politici, mai domi nel far notare quanto l’aria ad Ankara si sia fatta pesante negli ultimi anni: un Paese, sorto nel 1923 per effetto della dissoluzione dell’Impero Ottomano, che grazie all’opera riformatrice del Kaymal Atatürk aveva sempre fatto della laicità, dell’occidentalismo e della secolarizzazione delle strutture statali un caposaldo della propria politica, si è trovato in una fase di acuta controtendenza segnata da una massiccia islamizzazione della società nei suoi usi e soprattutto nei suoi “costumi”, se si considera il numero sempre più alto di donne velate che si incontrano viaggiando lungo tutto il ponte anatolico.

Dal tentato golpe, l’ascendente di Erdoğan ha aumentato esponenzialmente il suo peso, mentre oggi il volere della nazione sembra coincidere sempre di più con quello di un solo uomo al comando, determinato e spregiudicato nell’applicare la propria strategia. Proprio in quella folle notte, il “Sultano” in fuga testò il livello di fedeltà e gradimento dei suoi concittadini nei confronti della propria personalità rivolgendosi direttamente alla nazione con un video di pochi minuti (girato in un luogo sconosciuto grazie ad un semplice smartphone) e chiedendo al popolo turco senza mezzi termini la resistenza ad oltranza contro i golpisti che, ormai dati per vincitori, già avevano preso controllo delle sedi dei principali media. Proprio le sollevazioni popolari e le imponenti manifestazioni pro-Erdoğan scoraggiarono i militari, in seguito arrestati. Al mondo fu, allora, ben chiara una cosa: il consenso nei confronti del capo di Stato turco non era un qualcosa di meramente costruito dai prezzolati media locali in virtù di risultati elettorali alterati, bensì un tangibile sentimento nazionalistico popolare che ha scosso e preoccupato non poco l’Europa intera e gli Stati Uniti, da sempre alleati ed avallatori delle ambizioni turche nel Mediterraneo e, soprattutto, nel Mar Nero.

Il corrente mandato terminerà nel 2023, proprio nell’anno che segnerà il centenario della Repubblica turca. Al momento alcuni dati parlano di circa 78mila persone incarcerate, accusate di essere parte di associazioni di “stampo terroristico” curde o guleniste. Per reprimere il golpe circa 18mila dipendenti sono stati sollevati dai pubblici uffici, mentre sono stati revocati i passaporti e le ferie a tutti gli operatori del settore pubblico,  Erdoğan ha dichiarato lo “stato di emergenza” invocando l’articolo 120 della costituzione. Gli storici alleati della Turchia guardano con sempre più attonita preoccupazione alle manovre del “Sultano”, sempre più conscio del suo illimitato potere personale e del peso specifico che il suo Paese ricopre all’interno del delicato scenario geopolitico multipolare: il “rim power”, il potere di margine, della Turchia è immenso, considerando la sua posizione geografica, un ponte tra Oriente ed Occidente, una rampa di lancio (in tutti i sensi) nel Mediterraneo e nel Mar Nero, l’ultimo baluardo del pacifico mondo europeo prima di un Vicino Oriente destabilizzato da sanguinosi conflitti, “valvola mitrale” per il flusso di migranti che, dalla Siria, potrebbe invadere di nuovo i Balcani e la MittelEuropa, creando non pochi problemi politici e sociali, nonché Patria “agognata” ed ancora difesa da una foltissima comunità stabilitasi in Germania, nel cuore produttivo del Continente. Proprio in questa imprevedibilità è racchiusa la strategia di Erdoğan, un capo di Stato sempre più propenso alla restaurazione del potere turco in senso sempre più totale, in memoria di un passato segnato dalla potenza dell’Impero, dei suoi gran visir e del suo esercito: l’approccio dogmatico, violento e poco conciliante nei confronti di dossier delicati come il genocidio armeno, la reiterata repressione curda, l’intervento ambiguo nel conflitto siriano e lo sfrontato abbattimento del Su-24 russo di qualche anno fa, l’accusa –mai del tutto smontata- di commerciare oro nero direttamente con l'Isis, la visita a Sarajevo (vecchio bastione ottomano nei Balcani) bagnata da una folla di bosniaci musulmani festanti, le discusse foto in compagnia di noti e visibilmente lusingati calciatori tedeschi di origine turca poco prima dell’inizio della rassegna iridata…non v’è dubbio alcuno: l’immagine di Erdoğan restituisce i tratti non solo di un “restauratore” dell’influenza turca nel mondo, ma anche quella di un “difensore” dei valori mussulmani nell’età contemporanea.

Le prime mosse del nuovo corso non sembrano voler minimamente cambiare direzione: il nuovo governo è infarcito di personalità a lui vicine (come il confermatissimo ministro degli esteri Çavuşoğlu o il Ministro dell’energia, nonchè suo genero, Albayrak), mentre la prima visita ufficiale avrà un forte valore simbolico, dal momento che avverrà a Baku, in Azerbaigian, storico baluardo turcofono e turcofilo nel complesso equilibrio caucasico e post-sovietico, per la soddisfazione del presidente azero Alyev che non ha perso tempo nel tirare in ballo la “fratellanza turco-azera”, spesso usata in chiave anti-russa e, soprattutto, anti-armena. Il repentino e rumoroso ritorno di Ankara sulla scena mondiale sfida sempre più l’Europa, che ora comincia a sentire anche il peso di una certa responsabilità. La domanda, infatti, che assilla sempre più i quadri di Bruxelles è di quelle che non fanno dormire la notte: in che misura il rifiuto dell’Ue di fronte alla richiesta di ingresso della Turchia nelle sue strutture ha influito sulla successive prese di posizione politiche e culturali del “Sultano” Erdoğan?