Messa crismale, Papa: “Quando diventiamo strumenti di divisione si fa il gioco del nemico”

Papa Francesco è arrivato nella basilica vaticana alle 9:30 dove ha presieduto la messa crismale, liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le chiese cattedrali

Foto: Vatican News

Papa Francesco è arrivato nella basilica vaticana alle 9:30 dove ha presieduto la messa crismale, liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le chiese cattedrali. La messa del crisma è concelebrata dal Papa con i cardinali, i vescovi, il vicario del Papa a Roma, il cardinale Angelo De Donatis, celebrante all’altare, e i sacerdoti della diocesi.

Nel corso della celebrazione, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della loro ordinazione; quindi ha luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma.

Omelia del Santo padre

«Lo spirito del Signore Dio è sopra di me» (Lc 4,18): da questo versetto è cominciata la predicazione di Gesù e dallo stesso versetto ha preso avvio la Parola che abbiamo ascoltato oggi (cfr Is 61,1). Al principio, dunque, sta lo Spirito del Signore. Ed è su di Lui che vorrei riflettere oggi con voi, cari confratelli. Perché senza lo Spirito del Signore non c’è vita cristiana e, senza la sua unzione, non c’è santità. Egli è il protagonista ed è bello oggi, nel giorno nativo del sacerdozio, riconoscere che c’è Lui all’origine del nostro ministero, della vita e della vitalità di ogni Pastore. La santa Madre Chiesa ci insegna infatti a professare che lo Spirito Santo «dà la vita»[1], come ha affermato Gesù dicendo: «È lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63); insegnamento ripreso dall’apostolo Paolo, il quale scrisse che «la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Cor 3,6) e parlò della «legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2).

Senza di Lui neppure la Chiesa sarebbe la Sposa vivente di Cristo, ma al più un’organizzazione religiosa; non il Corpo di Cristo, ma un tempio costruito da mani d’uomo. Come edificare allora la Chiesa, se non a partire dal fatto che siamo “templi dello Spirito Santo” che “abita in noi” (cfr 1 Cor 6,19; 3,16)? Non possiamo lasciarlo fuori casa o parcheggiarlo in qualche zona devozionale. Abbiamo bisogno ogni giorno di dire: “Vieni, perché senza la tua forza nulla è nell’uomo”[2].

Lo Spirito del Signore Dio è sopra di me. Ciascuno di noi può dirlo; non è presunzione, ma realtà, in quanto ogni cristiano, in particolare ogni sacerdote, può fare proprie le parole che seguono: «perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione» (Is 61,1). Fratelli, senza merito, per pura grazia abbiamo ricevuto un’unzione che ci ha fatto padri e pastori nel Popolo santo di Dio. Soffermiamoci allora su questo aspetto dello Spirito: l’unzione. Dopo la prima “unzione” che avvenne nel grembo di Maria, lo Spirito scese su Gesù al Giordano.

In seguito a ciò, come spiega San Basilio, «ogni azione [di Cristo] si andava compiendo con la compresenza dello Spirito Santo»[3]. Con la potenza di quella unzione, infatti, predicava e operava segni, in virtù di essa «da lui usciva una forza che guariva tutti» (Lc 6,19). Gesù e lo Spirito operano sempre insieme, così da essere come le due mani del Padre[4] che, protese verso di noi, ci abbracciano e ci risollevano. E da loro sono state segnate le nostre mani, unte dallo Spirito di Cristo. Sì, fratelli miei, il Signore non ci ha solo scelti e chiamati: ha riversato in noi l’unzione del suo Spirito, lo stesso che è disceso sugli Apostoli.

Guardiamo dunque a loro, agli Apostoli. Gesù li scelse e sulla sua chiamata lasciarono le barche, le reti, la casa. L’unzione della Parola cambiò la loro vita. Con entusiasmo seguirono il Maestro e cominciarono a predicare, convinti di compiere in seguito cose ancora più grandi; finché arrivò la Pasqua. Lì tutto sembrò fermarsi: giunsero a rinnegare e abbandonare il Maestro. Fecero i conti con la loro inadeguatezza e compresero di non averlo capito: il «non conosco quest’uomo» (Mc 14,71), che Pietro scandì nel cortile del sommo sacerdote dopo l’ultima Cena, non è solo una difesa impulsiva, ma un’ammissione di ignoranza spirituale: lui e gli altri forse si aspettavano una vita di successi dietro a un Messia trascinatore di folle e operatore di prodigi, ma non riconoscevano lo scandalo della croce, che sbriciolò le loro certezze. Gesù sapeva che da soli non ce l’avrebbero fatta e per questo promise loro il Paraclito. E fu proprio quella “seconda unzione”, a

Pentecoste, a trasformare i discepoli portandoli a pascere il gregge di Dio e non più sé stessi. Fu quell’unzione di fuoco a estinguere la loro religiosità centrata su sé stessi e sulle proprie capacità: accolto lo Spirito, evaporano le paure e i tentennamenti di Pietro; Giacomo e Giovanni, bruciati dal desiderio di dare la vita, smettono di inseguire posti d’onore (cfr Mc 10,35-45); gli altri non stanno più chiusi e timorosi nel Cenacolo, ma escono e diventano apostoli nel mondo. Fratelli, un simile itinerario abbraccia la nostra vita sacerdotale e apostolica. Anche per noi c’è stata una prima unzione, cominciata con una chiamata d’amore che ci ha rapito il cuore.

Per essa abbiamo lasciato gli ormeggi e su quell’entusiasmo genuino è scesa la forza dello Spirito, che ci ha consacrato. Poi, secondo i tempi di Dio, giunge per ciascuno la tappa pasquale, che segna il momento della verità. Ed è un momento di crisi, che ha varie forme. A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche e debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove, prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo. Questa tappa rappresenta un crinale decisivo per chi ha ricevuto l’unzione. Si può uscirne male, planando verso una certa mediocrità, trascinandosi stanchi in una “normalità” dove si insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta di ciò che si può fare; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro rispetto alla nostra unzione; quella dello scoraggiamento, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia. Ed ecco il grande rischio: mentre restano intatte le apparenze, ci si ripiega su di sé e si tira a campare svogliati; la fragranza dell’unzione non profuma più la vita e il cuore non si dilata ma si restringe, avvolto nel disincanto.

Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio, la «tappa decisiva della vita spirituale, in cui deve effettuarsi l’ultima scelta tra Gesù e il mondo, tra l’eroicità della carità e la mediocrità, tra la croce e un certo benessere, tra la santità e un’onesta fedeltà all’impegno religioso»[5].

È il momento benedetto in cui noi, come i discepoli a Pasqua, siamo chiamati a essere «abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello Spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni»[6]. È il chairos in cui scoprire che «il tutto non si riduce ad abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma richiede di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione e il frutto, e di andare con l’aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità»[7]. Con l’aiuto dello Spirito Santo: è il tempo, per noi come per gli Apostoli, di una “seconda unzione”, dove accogliere lo Spirito non sull’entusiasmo dei nostri sogni, ma sulla fragilità della nostra realtà. È un’unzione che fa verità nel profondo, che permette allo Spirito di ungerci le debolezze, le fatiche, le povertà interiori. Allora l’unzione profuma nuovamente: di Lui, non di noi.

La via per questo è ammettere la verità della propria debolezza. A questo ci  esorta «lo Spirito della verità» (Gv 16,13), che ci smuove a guardarci dentro fino in fondo, a chiederci: la mia realizzazione dipende dalla mia bravura, dal ruolo che ottengo, dai complimenti che ricevo, dalla carriera che faccio, dai superiori o dai collaboratori che ho, dai confort che mi posso garantire, oppure dall’unzione che profuma la mia vita? Fratelli, la maturità sacerdotale passa dallo Spirito Santo, si compie quando Lui diventa il protagonista della nostra vita. Allora tutto cambia prospettiva, anche le delusioni e le amarezze, perché non si tratta più di cercare di stare meglio aggiustando qualcosa, ma di consegnarci, senza trattenere nulla, a Chi ci ha impregnati della sua unzione e vuole scendere in noi fino in fondo. Riscopriamo allora che la vita spirituale diventa libera e gioiosa non quando si salvano le forme e si cuce una toppa, ma quando si lascia allo Spirito l’iniziativa e, abbandonati ai suoi disegni, ci disponiamo a servire dove e come ci viene chiesto: il nostro sacerdozio non cresce per rammendo, ma per traboccamento! Se lasciamo agire in noi lo Spirito della verità custodiremo l’unzione, perché le falsità con cui siamo tentati di convivere verranno alla luce. E lo Spirito, il quale “lava ciò che è sordido”, ci suggerirà, senza stancarsi, di “non macchiare l’unzione”, nemmeno un poco. Viene alla mente quella frase del Qoelet, che dice: «Una mosca morta guasta l’unguento del profumiere» (10,1). È vero, ogni doppiezza che si insinua è pericolosa: non va tollerata, ma portata alla luce dello Spirito.

Perché se «niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce» (Ger 17,9), lo Spirito Santo, Lui solo, ci guarisce dalle infedeltà (cfr Os 14,5). È per noi una lotta irrinunciabile: è infatti indispensabile, come scrisse San Gregorio Magno, che «chi annuncia la parola di Dio, prima si dedichi al proprio modo di vivere, perché poi, attingendo dalla propria vita, impari cosa e come dirlo. […] Nessuno presuma di dire fuori ciò che prima non ha ascoltato dentro»[8]. Ed è lo Spirito il maestro interiore da ascoltare, sapendo che non c’è nulla di noi che Egli non voglia ungere. Fratelli, custodiamo l’unzione: invocare lo Spirito sia non una pratica saltuaria, ma il respiro di ogni giorno.

Io, consacrato da Lui, sono chiamato a immergermi in Lui, a far entrare la sua luce nelle mie opacità per ritrovare la verità di quello che sono. Lasciamoci spingere da Lui a combattere le falsità che si agitano in noi; e lasciamoci rigenerare da Lui nell’adorazione, perché quando adoriamo il Signore Egli riversa nei nostri cuori il suo Spirito. «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato», prosegue la profezia, a portare un lieto annuncio, liberazione, guarigione e grazia (cfr Is 61,1-2; Lc 4,18-19): in una parola, a portare armonia dove non c’è. Dopo avervi parlato dell’unzione, vorrei dirvi qualcosa sull’armonia che ne è la conseguenza. Lo Spirito Santo, infatti, è armonia.

Anzitutto in Cielo: San Basilio spiega che «tutta quella sovraceleste e indicibile armonia nel servizio di Dio e nella sinfonia vicendevole delle potenze sovracosmiche, è impossibile che sia conservata se non per l’autorità dello Spirito»[9]. E poi in terra: nella Chiesa Egli è infatti quella «divina e musicale Armonia»[10] che tutto lega. Suscita la diversità dei carismi e la ricompone in unità, crea una concordia che non si fonda sull’omologazione, ma sulla creatività della carità. Così fa l’armonia tra i molti. Durante gli anni del Concilio Vaticano II, dono dello Spirito, un teologo pubblicò uno studio in cui parlò dello Spirito non in chiave individuale, ma plurale. Invitò a pensarlo come una Persona divina non tanto singolare, ma “plurale”, come il “noi di Dio”, il noi del Padre e del Figlio, perché è il loro nesso, è in sé stesso concordia, comunione, armonia. Creare armonia è quanto desidera, soprattutto attraverso coloro nei quali ha riversato la sua unzione.

Fratelli, costruire l’armonia tra noi non è tanto un buon metodo affinché la compagine ecclesiale proceda meglio, non è questione di strategia o di cortesia: è un’esigenza interna alla vita dello Spirito. Si pecca contro lo Spirito che è comunione quando si diventa, anche per leggerezza, strumenti di divisione; e si fa il gioco del nemico, che non viene allo scoperto e ama le dicerie e le insinuazioni, fomenta partiti e cordate, alimenta la nostalgia del passato, la sfiducia, il pessimismo, la paura. Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Ricordiamo che lo Spirito, “il noi di Dio”, predilige la forma comunitaria: la disponibilità rispetto alle proprie esigenze, l’obbedienza rispetto ai propri gusti, l’umiltà rispetto alle proprie pretese. L’armonia non è una virtù tra le altre, è di più. San Gregorio Magno scrive:

«Quanto valga la virtù della concordia lo dimostra il fatto che, senza di essa, tutte le altre virtù non valgono assolutamente nulla». Aiutiamoci, fratelli, a custodire l’armonia, cominciando non dagli altri, ma ciascuno da sé; chiedendoci: nelle mie parole, nei miei commenti, in quello che dico e scrivo c’è il timbro dello Spirito o quello del mondo? Penso anche alla gentilezza del sacerdote: se la gente trova persino in noi persone insoddisfatte e scontente che criticano e puntano il dito, dove vedrà l’armonia? Quanti non si avvicinano o si allontanano perché nella Chiesa non si sentono accolti e amati, ma guardati con sospetto e giudicati! In nome di Dio, accogliamo e perdoniamo, sempre! E ricordiamo che l’essere spigolosi e lamentosi, oltre a non produrre nulla di buono, corrompe l’annuncio, perché contro-testimonia Dio, che è comunione e armonia. Ciò dispiace anzitutto allo Spirito Santo, che l’apostolo Paolo ci esorta a non rattristare (cfr Ef 4,30).

Fratelli, vi lascio questi pensieri che ho nel cuore e concludo rivolgendovi una  parola semplice e importante: grazie. Grazie per la vostra testimonianza e per il vostro servizio; grazie per il bene nascosto che fate, per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche e pochi riconoscimenti. Lo Spirito di Dio, che non lascia deluso chi ripone in Lui la propria fiducia, vi colmi di pace e porti a compimento ciò che in voi ha iniziato, perché siate profeti della sua unzione e apostoli di armonia.