La fase 2 della fede e la missione del Pastore

Fides et ratio, fede e ragione. Quando i giornalisti chiesero all’appena ordinato presule tedesco Joseph Raztinger quale fosse il suo programma di governo episcopale, lui rispose che si trattava di recuperare e di vivere la semplicità del “sì” di Maria a Dio, il “sì” della “povera di Jahvè” che fu l’inizio della Chiesa. Mi sono tornate in mente queste parole del più grande teologo del ventesimo secolo nella bufera irrazionalmente scatenata contro la Cei da settori oltranzisti per la sua giusta prudenza (virtù cardinale) a tutela della salute pubblica. Quasi due mesi fa l’Organizzazione mondiale della Sanità dichiarava la pandemia di Covid-19. Per la fase 2 dell’emergenza coronavirus “sarebbe inopportuno fare corse in avanti, perché il bene comune, che è il bene di tutti, ci invita a camminare insieme a tutte le Chiese sorelle d’Italia, che vivono la pandemia in condizioni differenti”, avverte il presidente della Cei.

“Le statistiche ci dicono che non siamo ancora usciti da questo forte momento di crisi– sottolinea il cardinale Gualtiero Bassetti-. Anche il Santo Padre ci raccomanda prudenza”. Riguardo alle modalità delle celebrazioni consentite in chiesa, dei battesimi e  dei matrimoni, “valgono le norme già stabilite durante la fase 1; per il rito delle esequie nella fase 2 è consentita la presenza di 15 fedeli, senza che questi debbano essere sottoposti alla misurazione della temperatura corporea”. Per la Messa domenicale “dovremo ancora aspettare circa un paio di settimane, per ulteriori approfondimenti. Sabato 30 maggio, vigilia di Pentecoste, speriamo di essere in grado di celebrare la Messa Crismale con la benedizione degli oli“. Parole sagge ed equilibrate come devono essere quelle di un pastore. I presuli sono chiamati ad essere “Cooperatores veritatis” (collaboratori della verità), come recita il motto episcolare tratto dal teologo Joseph Ratzinger dalla Terza Lettera di Giovanni al momento della sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga quando spiegò così la scelta di quelle due parole: “Pareva che potessero ben rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico. Pur con tutte le differenze si trattava sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio“.

In effetti la missione del vescovo è quella di un “pater familias” tanto quanto la famiglia è una chiesa domestica. I valori familiari sono la stella polare dell’intera esistenza di un pastore e la loro difesa è prioritaria nel suo apostalato. Era il 28 maggio del 1977 quando il futuro Benedetto XVI ricevette l’ordinazione episcopale per decisione di San Paolo VI. Nelle dichiarazioni rese quel giorno ai mass media si comprende molto del pastore che mai smetter di essere teologo. E che poi, parimenti, diventerà Papa, restando teologo. “Una caratteristica della fede cristiana è quella di avere un contenuto che si rivolge anche all’intelligenza e alla ragione dell’uomo”, argomentò Ratzinger. “Questa stessa struttura, che consiste nel proporre dei contenuti che hanno una profonda radice nel mistero ma che nello stesso tempo sono intelligibili e quindi proponibili alla comprensione della ragione umana, ha fatto sì che nella Chiesa la riflessione teologica abbia sempre avuto una funzione importante: la teologia è un “pensare con” la Parola di Dio. E quanto più il pensiero umano si sviluppa, tanto più importante è il fatto che proprio le domande ultime che la fede pone all’uomo non rimangano intellettualmente sottosviluppate, ma crescano con esso, accompagnino il suo cammino”.

In questo sta la funzione e la grandezza della teologia: accompagnare la ragione umana, permettendo all’Avvenimento cristiano di rendersi presenza dentro la vita dell’uomo. A chi gli rinfacciava il brusco passaggio da una vita tutta di impegno accademico al governo episcopale della maggiore diocesi tedesca, Ratiznger ribatteva: “Anche la riflessione teologica è un tipo di pastorale, un lavoro per la vita della Chiesa e non ho mai cercato nel passato la “scienza pura”, ma ho sempre dato un taglio pastorale ai miei studi”. Il suo programma di episcopato includeva il dialogo con i sacerdoti e con i laici dei consigli parrocchiali, nella speranza-convinzione che il suo bagaglio teologico gli permettesse di trovare valide indicazioni pastorali. Anche perché “i problemi specifici della Chiesa sconfinano spesso nel campo della teologia”. E “la crisi della Chiesa deriva anche dai problemi suscitati dalla riflessione teologica”. Per questo il futuro Benedetto XVI ritenne giusto richiedere al vescovo una specifica conoscenza teologica. La sua preoccupazione nel ricevere l’ordinazione episcopale era che nella società secolarizzata non fossero più riconoscibili le premesse dei valori fondamentali che ordinavano la vita dell’uomo. A quanti gli rimproveravano un presunto “voltafaccia” nella stagione del post-Concilio, Ratzinger replicava difendendo la centralità del Vaticano II nella Chiesa del Novecento, senza nasconderne le fragilità. La grandezza del Concilio è stata quella di lasciarsi interrogare dai problemi vitali dell’uomo e di aver cercato di darvi una risposta a partire dalla fede. I suoi limiti consistono nel fatto che, nell’accogliere questi problemi, il Concilio non ha potuto dare una risposta specifica a ognuno di essi, ma ha semplicemente indicato delle linee fondamentali: inevitabilmente sono più i compiti e i problemi nuovi che ha aperto che non le risposte precise che ha potuto dare”. Insomma, nel delicato e per lui inedito ruolo di capo di una diocesi, Ratzinger si impegnò subito a mantenere una piena fedeltà alla sostanza della fede, così come essa era stata annunciata integralmente dal Concilio, ma anche a ricavare da questa stessa fedeltà le risposte ai nuovi compiti che il Vaticano II aveva aperto. Alla guida dell’arcidiocesi di Monaco si strutturò il Ratzinger uomo di governo, persuaso che il rinnovamento sollecitato dal Concilio non richiedesse al vescovo di erigere nuove strutture ecclesiali. Per lui solo l’approfondimento spirituale del nucleo fondamentale della fede cristiana poteva consentire di trovare soluzioni autentiche alle domande concrete che l’agire e anche il soffrire della Chiesa poneva nelle diverse situazioni locali, nella consapevolezza che non si potevano dare risposte universalmente valide alla crisi della Chiesa e che la situazione nelle varie parti del mondo era molto diversa.

L’appena ordinato vescovo Joseph Ratzinger disse chiaro e tondo che “l’urgenza più grande è che la Chiesa ritrovi la semplicità, si converta a tale semplicità e cammini verso i semplici”. Una lezione di buon senso pastorale e fede autentica quantomai attuale in tempi di irrazionali strumentalizzazioni da parte di minoranze che vogliono dividere la Chiesa.