Violenza di genere, interroghiamoci su cosa fare

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La giornata internazionale contro la violenza sulle donne impone per l’ennesima una volta di riflettere sul come porre rimedio ad una vera emergenza sociale. In Italia ogni tre giorni muore una donna, uccisa da uno stretto familiare, da un ex, marito o fidanzato. L’ultimo atto di questa strage è stato compiuto da un ragazzo in apparenza “tranquillo”, cresciuto in un contesto sociale lontano da contesti di povertà educativa che spesso fanno da sfondo ai reati di genere. Ha assassinato Giulia, colpevole di voler chiudere la loro storia, colpevole, forse e ancor di più di aver raggiunto il traguardo della laurea. In un rapporto malato, probabilmente, anche di competizione odiosa. Il traguardo del titolo di studio significa libertà e nuova vita per tantissime ragazze. Si, perché Giulia da quel momento avrebbe messo le ali, per andare lontano.

Per invertire questa perversa tendenza, la repressione non basta. Bisogna ripartire dalla scuola, luogo privilegiato di apprendimento e formazione. In Europa, ben 10 nazioni prevedono specifici insegnamenti scolastici di educazione all’affettività e al rispetto reciproco, integrati nei corsi curriculari, con l’obiettivo di far comprendere il significato delle relazioni sentimentali, di come gestire le emozioni, un rifiuto, la fine di una storia e contrastare le informazioni che provengono dai social, spesso confuse e diseducative.

Anche in Italia bisognerebbe seguire l’esempio straniero, definendo il contenuto di corsi trasversali, informando i giovani anche sul difficile e articolato cammino che ha portato alla piena affermazione dei diritti e all’eguaglianza di genere. Far sapere ai nostri figli che il divieto di discriminazioni basato sul sesso è il primo specifico motivo previsto nell’art. 3 della Costituzione. Proprio perché la disciplina dei rapporti tra uomo e donna è stata per lungo tempo segnata da profonde diseguaglianze. Basti pensare al ruolo della donna nell’ambito della conduzione della vita familiare. “Il marito è il capo della famiglia “– scandiva l’art.144 del Codice civile del 1942 – “la moglie ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”.  Non solo, la moglie senza l’autorizzazione del marito non poteva riscuotere o cedere capitali, esercitare attività commerciali, contrarre muti, vendere o acquistare immobili. Addirittura, una legge del 1912 prevedeva la perdita della cittadinanza italiana della donna che contraeva matrimonio con uno straniero. Per non dire dell’estinzione della pena per la violenza sessuale, se seguita dalle nozze riparatrici, una legge che considerava la donna alla stregua di un oggetto proprietà dell’uomo, cancellata solo da una legge del 1981.

Se oggi la situazione è radicalmente cambiata lo si deve al lodevole contributo della giurisprudenza costituzionale che ha orientato l’evoluzione legislativa. Ma la stessa Corte costituzionale fino al 1961 giustificava il diverso trattamento penale dei due coniugi in caso di adulterio, riconoscendo un maggior disvalore nell’adulterio compiuto dalla moglie rispetto a quello consumato dal marito. In quella decisione i giudici costituzionali scrivono si avverte “una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, per la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle delicate strutture della famiglia”. Dopo quasi dieci anni, si assiste ad un cambio di rotta e la Corte ammette finalmente che “il principio che il marito possa violare impunemente l’obbligo di fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita rimanda ai tempi remoti nei quali la donna, considerata persino incapace e privata di moti diritti, si trovava in uno stato di soggezione alla potestà maritale, oggi la donna ha acquistato la pienezza dei diritti, fino a raggiungere la piena parità con l’uomo” (sent. 126 del 1968).

Ma solo nel 2022 la Corte ritiene discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la norma che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori, fa osservare la sentenza n.131, devono poter condividere la scelta del suo cognome. Una sentenza rivoluzionaria e di immediata applicazione che garantisce l’unitarietà del cognome dei fratelli e delle sorelle, anche con quelli nati da una nuova unione della madre. Sebbene il doppio cognome per l’ordinamento italiano rappresenti oramai la regola, nella realtà stenta ad affermarsi. Perché dinanzi al disappunto del padre, per un cambiamento che viene percepito quasi come una sorta di “lesa maestà” del suo ruolo all’interno della famiglia, tante donne preferiscono rinunciare a trasferire anche il proprio cognome ai loro bambini. Ma non si tratta di una formale banalità, nel cognome delle mamme c’è la riconoscibilità della storia dell’identità e delle fatiche che hanno portato alla piena affermazione femminile nella vita sociale.

Sono soltanto alcune delle suggestioni su cui riflettere insieme agli alunni. Accompagnandoli, fin da piccoli, nell’abitudine di solidale alleanza tra donne e uomini, per guarire la società italiana dalla piaga della violenza di genere.