Rischio desertificazione in Italia: perché non si può più parlare di emergenza

Foto di Tumisu da Pixabay

In questi giorni si è parlare di nuovo di rischio desertificazione per alcune regioni italiane: un problema che riguarderebbe il 20% del territorio nazionale. Particolarmente grave la situazione in Sicilia, dove ad essere a rischio è circa il 70% del territorio (per questo motivo, la Regione siciliana ha dichiarato lo stato di calamità naturale) https://www.regione.sicilia.it/la-regione-informa/siccita-dichiarato-stato-calamita-naturale-tutto-territorio-siciliano.

In realtà, le “emergenze” non sono più casi così rari da dover essere considerati “emergenze”: secondo un rapporto di Legambiente, nel 2023, in Italia si sarebbero verificati poco meno di quattrocento (378) eventi meteorologici estremi. Negli ultimi anni, in Sicilia, gli eventi meteorologici estremi sono stati 175, più di uno al mese. Periodi di siccità prolungata, ondate di calore intense oppure fenomeni brevi ma di intensità elevata, come i temporali violenti, incendi o alluvioni. Tutti eventi che non fanno certo bene agli strati fertili del suolo e, in generale, all’ecosistema. Ma che ormai sono sorprendentemente frequenti.

E ogni volta, mentre ci si arrabatta per cercare di capire le cause di singoli fenomeni, si finge di non capire che l’ambiente sta cambiando. Anzi è già cambiato. Lo ha fatto più velocemente di quanto si sperava. Per i governi locali, ma anche quelli centrali (e internazionali) l’unica possibilità è imparare a fronteggiare queste “emergenze”. Del resto, alcuni problemi non sono una novità. Ad esempio, in Sicilia, su 390 Comuni ben 360 sarebbero interessati da rischio frane e rischio idraulico moderato (il 90% del totale). Quanto alla siccità già un paio d’anni fa il rapporto “Clima in Italia nel 2022” di ISPRA definiva il 2022 l’anno meno piovoso dal 1961, con precipitazioni inferiori alla norma da gennaio a luglio addirittura del 39% (anche InTerris ne parlò “Clima in Italia nel 2022”: cosa emerge dal dossier (interris.it)).

Questi cambiamenti sono una realtà con cui si dovrebbe imparare a convivere. Da anni scienziati, ricercatori e associazioni forniscono previsioni e proiezioni sui cambiamenti nel breve-medio periodo. Ma chi gestisce la “cosa comune” sembra non fa quasi nulla per adattarsi. Per mettere in sicurezza il territorio e consentire alla popolazione di reagire ai cambiamenti in atto. È necessario imparare a essere più “resilienti” (per trovare un termine altrettanto abusato negli ultimi decenni bisogna cercare “sostenibilità”, eppure per entrambi molti sembrano non capire il significato di queste parole).

Ci si lamenta per la siccità, ma nessuno parla delle perdite lungo le condotte idriche. Eppure, i dati sono impressionanti: variano dal 20 al 65%. Un problema che non si ferma ai “tubi”: esistono criticità legate a invasi, casse di espansione, barriere, dighe, serbatoi in tunnel e altro. In alcuni casi la scusa per non aver fatto nulla è la mancanza di fondi. Quindi si interviene “a pezzi”, si rappezzano i buchi più grossi. Ma spesso fronteggiare le emergenze quasi sempre costa più che prevenirle. Allo stesso modo nessuno pensa a migliorare l’efficienza nei consumi. O a ridurre gli sprechi di acqua potabile e di acqua dolce. E nessuno parla di “impronta idrica”. Eppure, l’Italia è uno dei maggiori consumatori al mondo di acqua virtuale.

In Italia, come in molti altri Paesi “sviluppati”, manca la cultura della tutela dell’ambiente. Un paio d’anni fa, l’art. 9 e l’art. 41 della Costituzione sono stati modificati proprio per inserire il concetto di tutela ambientale. Con la legge costituzionale n.1 dell’11 febbraio 2022 la tutela dell’ambiente e della natura sono entrati a far parte della Costituzione. Una riforma importante. Ma della quale alla maggior parte degli italiani non è importato nulla: secondo un sondaggio commissionato a EMG Different da WWF, su un campione di italiani dai 18 ai 70 anni “solo il 28% ha dichiarato di sapere che è stata approvata una riforma costituzionale che ha inserito nella nostra Costituzione la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi”.

Forse è proprio questo il problema: per molti, l’ambiente la sua salvaguardia non sono una priorità. Spesso non si comprende che gli eventi estremi che si stanno verificando, che si tratti di eventi di lunga durata (come siccità, desertificazione o latro) o di eventi di breve durata (alluvioni o frane o simili), sono tutti parte di un cambiamento col quale bisogna imparare a convivere. È inutile lamentarsi delle emissioni di CO2 se poi non si fa nulla per ridurre i consumi energetici: l’aumento delle fonti energetiche rinnovabili è servito a soddisfare la maggiore domanda di energia. È inutile piangere per la siccità o la desertificazione e continuare a sprecare risorse idriche in modo inverosimile. Così come non serve a nulla fingere di non sapere che i maggiori consumi idrici sono legati non al consumo civile ma alla produzione agricola e agli allevamenti.

Ma l’errore più grande è considerare “emergenze” eventi che sono sempre più frequenti. E questo indipendentemente dalla causa che li ha prodotti. Sarebbe più giusto imparare a far fronte a queste “emergenze”. Ma questo non avviene. La prova? In almeno due degli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 si parla di questo tema. L’Obiettivo 13, “Agire con urgenza per combattere il cambiamento climatico e i suoi impatti”, ma soprattutto l’Obiettivo 11, “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. Per raggiungere questo obiettivo le Nazioni Unite e l’UNDRR hanno creato Making Cities Resilient 2030, un’iniziativa per coinvolgere tutti gli stakeholder al fine di migliorare la resilienza locale attraverso la sensibilizzazione, la condivisione di conoscenze ed esperienze, la creazione di reti di apprendimento, l’ “iniezione” di competenze tecniche, il collegamento di più livelli di governo e la creazione di partenariati. Purtroppo, oggi, solo 1.657 città in tutto il mondo hanno aderito a questo network (a tre livelli A, B e C). In Italia, sono pochissimi i Comuni che hanno aderito: complessivamente comprendono circa due milioni di cittadini. OpenMCR | Making Cities Resilient (undrr.org) Evidentemente chi gestisce le altre città pensa che non sia necessario imparare come rendere il territorio più “resiliente”. Almeno fino alla prossima … emergenza.