Covid e ricerca scientifica: le conoscenze apprese in due anni di pandemia

Dopo due anni di pandemia e centinaia di migliaia di articoli pubblicati sull’argomento, oggi i diversi aspetti clinici che caratterizzano il Covid-19, risultano essere molto più chiari e definiti. E’ ormai acquisito che i casi gravi di Covid-19 sono caratterizzati dall’elevata produzione di citochine e da un esteso danno polmonare che è in parte il risultato della fusione delle cellule polmonari, i pneumociti. Una ricerca ha evidenziato che lo spike di SARS-CoV-2 causando la fusione cellulare, induce un aumento di produzione di interferone e di altre citochine che aggravano la malattia.

Tra le tematiche più dibattute in questi ultimi mesi, è il valore della carica virale presente nei soggetti vaccinati rispetto ai non vaccinati. Questo aspetto così importante ai fini della contagiosità, è stato affrontato comparando il virus ancestrale Wuhan, Delta e Omicron (Puhach O. e altri). La carica virale è stata valutata nei primi 5 giorni dalla comparsa dei sintomi mediante coltura. I risultati, che presentano grande rilevanza per la sanità pubblica, indicano che la carica virale è in genere più bassa nei vaccinati rispetto ai non vaccinati, anche se per Omicron questa è minore in chi aveva ricevuto il richiamo rispetto a chi aveva ricevuto solo due dosi.

L’efficacia del richiamo del vaccino (booster) e gli effetti collaterali di questo, sono stati oggetto di un ampio studio prospettico che ha coinvolto oltre 600.000 persone, condotto in comunità attraverso un’applicazione dedicata. Per quanto attiene l’efficacia dei vaccini (sono stati considerati sia quelli a RNA che DNA), essa diminuisce a distanza di tempo dopo la seconda dose, risultando pari a circa 82% per i vaccini a RNA e 75% per quelli a DNA. La riduzione di efficacia era maggiore nelle persone di età pari o superiore a 55 anni ed in chi soffriva di altre patologie. La dose booster con vaccino a RNA (Pfizer), riportava l’efficacia a 92% e quella con un vaccino diverso, dopo il ciclo primario con AstraZeneca, a 88%. Le reazioni avverse dopo le dosi di richiamo sono state simili a quelle osservate dopo la seconda dose. Il richiamo omologo (stesso vaccino del ciclo primario), ha dato meno effetti collaterali che il richiamo eterologo (cioè utilizzando un vaccino diverso). Uno studio di coorte condotto in Svezia ha analizzato la protezione a lungo termine conferita da una precedente infezione (immunità naturale) e dalla vaccinazione più l’infezione (immunità ibrida). Il rischio di reinfezione e di ricovero in ospedale per Covid-19 in chi si è infettato ed è guarito, è rimasto basso fino a 20 mesi. La vaccinazione sembra ridurre ulteriormente questo rischio fino a 9 mesi. Da questi dati sembra emergere, a detta degli autori, la necessità di rivedere le procedure relative alle certificazioni internazionali di COVID-19, che dovrebbero tener conto sia dell’immunità naturale che di quella ibrida.

Sempre rimanendo in tema di vaccinazione più infezione, si segnala un’analisi critica che ha preso in considerazione gli studi sull’immunità ibrida, cioè quella conseguente alla vaccinazione e all’infezione dimostrando che questa conferisce una protezione altamente efficace contro la malattia sintomatica per almeno 8 mesi dopo la vaccinazione. Un punto debole di questa ricerca, peraltro segnalato dagli stessi autori, è che i dati sono stati raccolti prima che la variante Omicron emergesse, il che potrebbe mettere in dubbio oggi la rilevanza di questo risultato. Le modalità con cui le autorità sanitarie della Svezia hanno affrontato la pandemia Covid-19 nel 2020, è stata oggetto di una revisione critica (Nele Brusselaers e altri) che ha sottolineato come alcune delle scelte fatte, come per esempio puntare all’immunità di gregge ed evitare la chiusura delle attività, si siano rivelate negative in termini di diffusione del contagio.