Il Concilio Vaticano II ha cambiato marcia alla Chiesa

Sinodo

Quando Giovanni XXIII nella Settimana Santa del 1959, modificò la preghiera del Venerdì Santo pro perfidis Judaeis (per gli Ebrei che non credono) facendo eliminare la parola «perfidis», non poteva certo immaginare che con quella scelta dava di fatto inizio ad una nuova pagina del cammino ecumenico che avrebbe portato alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965) e all’avvio di rapporti positivi non solo con gli Ebrei, ma con tutte le religioni. Ben presto si crearono le premesse per dar vita ad una nuova stagione dell’ecumenismo. È opportuno ricordare il fervore ecumenico del cardinale Agostino Bea, le attività promosse dal Segretariato per l’Unità dei cristiani, l’abbraccio storico di Paolo VI con il patriarca di Costantinopoli Atenagora nel 1964 a Gerusalemme (che verrà ricordato esattamente cinquant’anni dopo dall’abbraccio di papa Francesco e il patriarca Bartolomeo a Istanbul).

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II si è forse avuta una maggiore attenzione per il dialogo interreligioso che per il cammino ecumenico tra le Chiese cristiane, anche se a questo tema specifico è stata dedicata l’enciclica Ut Unum Sint (1995). Molto più efficaci ed innovativi sono invece risultati i passi avanti compiuti nei rapporti con gli ebrei e con i musulmani, a partire dalla storica visita alla Sinagoga di Roma (13 agosto 1986), quando si rivolse agli ebrei chiamandoli e riconoscendoli come «nostri fratelli maggiori». Stessa impostazione per la coraggiosa visita alla Moschea di Damasco (6 maggio 2001) in Siria. Sono evidenti le radici conciliari di tutto ciò.

Il Concilio Vaticano II rivelò una Chiesa diversa da com’era stata fino ad allora guardata, giudicata. E diversa, specialmente, per come adesso intendeva essere presente sui molteplici fronti dell’umanità: la famiglia, il lavoro, la giustizia, la scienza, la guerra e la pace. Era la nuova Chiesa plasmata dall’altra grande costituzione, la “Gaudium et spes”. Quella che, già nel suo esordio, esprimeva il mutamento radicale operato dalla Chiesa nel suo rapporto con il mondo. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…”.

Di fatto, la Chiesa non solo dichiarava di non avere il monopolio assoluto di ciò che è umano, ma riconosceva addirittura di avere qualcosa da apprendere dai progressi dell’umanità. E soltanto più tardi si capì l’importanza fondamentale di questo cambio di rotta. Lo si capì scoprendo che il Vaticano II aveva preparato la Chiesa ad affrontare, pur senza averle potute oggettivamente prevedere, le grandi sfide e le grandi emergenze nel passaggio tra il XX e il XXI secolo. Fu un vertiginoso susseguirsi di sconvolgimenti politici, sociali, culturali, morali. Dalla crisi dei missili a Cuba, dagli sviluppi della scienza e della tecnica, alla rivoluzione giovanile, all’autodeterminazione dei popoli africani. Dalla globalizzazione, che ha sconvolto tutto, alla metamorfosi antropologica, che ha mutato la concezione stessa dell’esistenza umana. La fine delle ideologie. Muri crollati e altri che venivano alzati. Nuove guerre, un nuovo terrorismo, un nuovo interminabile flusso migratorio. L’attentato alle Torri Gemelle, il conflitto in Iraq, le rivolte nel mondo arabo. Fino alla tragedia planetaria, il coronavirus. E, arrivando ai nostri giorni, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin.

E se è vero che per la crisi ucraina, forse perché esplosa all’improvviso, s’è avvertita una certa inadeguatezza della diplomazia vaticana, questo però non può far dimenticare il grande e spesso decisivo contributo che i Papi e la Santa Sede hanno dato, in anni così difficili, in difesa della giustizia e della pace nel mondo. Un contributo segnato dalla credibilità, dall’autorevolezza, proprio perché discendeva da un Concilio che aveva riportato la Chiesa tra gli uomini, e l’aveva liberata da secolari compromissioni mondane, ne aveva accentuato l’afflato evangelico. Con il pontificato di Benedetto XVI si è verificato un certo raffreddamento nei rapporti della Chiesa cattolica sia con le altre confessioni cristiane, sia con le altre religioni. Subito dopo essere diventato papa, infatti, Ratzinger, contrariamente alle sue positive intenzioni, è stato al centro di ripetuti episodi di incomprensione. Si pensi, in particolare, al discorso di Ratisbona, al dibattito che si accese sulla figura dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e al tema della jihad, della guerra santa, oggi forse ancora più attuale di allora.

Francesco sta riannodando con cura il filo delicato del cammino ecumenico e del dialogo interreligioso. Soprattutto nei confronti del protestantesimo (dai pentecostali ai valdesi) si è mostrato intraprendente e in grado di rimettere in moto un cammino difficile. Francesco è stato il primo papa ad entrare in un Tempio evangelico valdese (22 giugno 2015), in occasione della sua visita pastorale a Torino. Durante la sua visita ha chiesto umilmente perdono ai fratelli evangelici per gli atteggiamenti e i comportamenti avuti noi loro confronti e nel corso della storia da parte della Chiesa cattolica, ed ha affermato fiduciosamente di anelare alla comunione di tutti i cristiani e che l’unità si fa in cammino.