Deserti oceanici: la morte della biodiversità marina

I mari, culla della vita, agonizzano in un male interiore che li lascia senza respiro. Per quanto tempo ancora?

Foto-di-Brian-Yurasits-su-Unsplash.jpg

I “deserti oceanici” (o biologici) sono delle zone morte nelle distese marine, in cui, a causa dell’enorme utilizzo di pesticidi, di altri elementi inquinanti e delle variazioni climatiche, risultano prive di sostanze nutrienti e ossigeno, necessari per la vita. Si tratta di un problema poco considerato ma molto diffuso, in tutto il mondo; determina l’assenza o la scarsità di risorse alimentari, in particolare di pesce e pone, ulteriormente, in ginocchio popolazioni già molto provate, sia in termini di alimentazione sia in quelli di occupazione. Il Sud del mondo contiene il numero maggiore di queste zone interdette alla vita.

I danni arrecati alla biodiversità marina avvengono in tempi molto brevi e un eventuale ritorno alla normalità (seppure mai identico al precedente, ormai mutato per sempre) ha bisogno di decenni per ripristinare quantità normali di ossigeno. Il fenomeno è chiamato anche “ipossia acquatica”. L’ipossia (carenza d’ossigeno) è il passo che precede situazioni reali di anossia (assenza).

Già nel 1997 (il 24 marzo), San Giovanni Paolo II, nel Discorso ai partecipanti a un convegno su ambiente e salute, sottolineava “L’aspetto di conquista e di sfruttamento delle risorse è diventato predominante e invasivo, ed è giunto oggi a minacciare la stessa capacità ospitale dell’ambiente: l’ambiente come ‘risorsa’ rischia di minacciare l’ambiente come ‘casa’. A causa dei potenti mezzi di trasformazione offerti dalla civiltà tecnologica, sembra talora che l’equilibrio uomo-ambiente abbia raggiunto un punto critico. […] Nell’età moderna secolarizzata si assiste all’insorgere di una duplice tentazione: una concezione del sapere inteso non più come sapienza e contemplazione, ma come potere sulla natura, che viene conseguentemente considerata come oggetto di conquista. L’altra tentazione è costituita dallo sfruttamento sfrenato delle risorse, sotto la spinta della ricerca del profitto senza limiti, secondo la mentalità propria delle società moderne di tipo capitalistico”.

Giuseppe Ungherese, esperto in economia circolare e inquinamento ambientale, è l’autore del volume “Non tutto il mare è perduto” (sottotitolo “Viaggio lungo le coste italiane alla scoperta di un ecosistema soffocato da plastiche e microplastiche. Responsabilità e soluzioni”), pubblicato da “Casti Editore” nel marzo 2022. Parte dell’estratto recita “Muove da queste esperienze per redigere un’inchiesta sui danni causati dall’uomo alla grande distesa blu, a partire dalle ormai onnipresenti microplastiche. La situazione è grave, ma potrebbe anche essere reversibile: dipende da noi, dalle nostre scelte come consumatori e da un modello di sviluppo industriale che, malgrado abbia palesato i suoi limiti, aziende e governi faticano a cambiare”.

CORDIS, “principale fonte della Commissione europea in merito ai risultati dei progetti finanziati dai programmi quadro dell’UE”, al link https://cordis.europa.eu/article/id/449175-tackling-marine-litter-from-source-to-sea/it, valuta “La plastica, tra cui sacchetti, bottiglie e attrezzature da pesca scartate, costituisce la parte più grande, dannosa e persistente di questo tipo di rifiuti. Si stima che ogni anno ne penetri negli ambienti acquatici una quantità compresa tra i 19 e i 23 milioni di tonnellate; secondo le previsioni, questo volume aumenterà fino a raggiungere i 54 milioni di tonnellate entro il 2030, a meno che non si prendano provvedimenti urgenti. Con il passare del tempo, i rifiuti di plastica si deteriorano fino a decomporsi in minuscoli frammenti; di questi, quelli che misurano meno di 5 millimetri di diametro vengono definiti microplastiche, mentre le nanoplastiche sono ancora più piccole, caratterizzate da un diametro inferiore a un millesimo di millimetro. Le microplastiche e le nanoplastiche rappresentano una minaccia per l’ambiente e la salute umana a livello globale. […] L’obiettivo della missione dell’UE Far rivivere i nostri oceani e le nostre acque entro il 2030 è quello di ridurre la presenza dei rifiuti di plastica in mare di almeno il 50% e di diminuire quella delle microplastiche rilasciate nell’ambiente del 30%”.

Rinnovabili.it, al link https://www.rinnovabili.it/ambiente/acqua/oceani-senza-ossigeno-mappa-3d/, alla fine del 2021 riportava i dati di una ricerca Si leggeva “Occupano soltanto l’1% del volume totale dei mari, ma hanno un impatto importante sugli ecosistemi e sul clima. Sono gli oceani senza ossigeno, delle vere e proprie ‘bolle’ di acqua dove la vita è impossibile. Sappiamo che si moltiplicano per effetto del riscaldamento globale: gli oceani hanno perso ben il 2% dell’ossigeno tra il 1960 e il 2010. E sappiamo che gli strati più profondi potrebbero perdere fino al 25% di O2 anche se azzeriamo le emissioni antropiche”.

Le gravi insidie alla vita degli oceani arrivano da più parti, fra queste vanno considerate le attività estrattive che stravolgono i fondali. Alcuni Stati hanno adottato un protocollo più rispettoso e meno invasivo nei confronti della biodiversità presente. Altri, in funzione esclusiva della raccolta, così preziosa e redditizia, non si pongono particolari scrupoli.

I pericoli, disparati, a volte non sono di carattere antropico. Il più grande deserto oceanico, denominato South Pacific Gyre, si trova al centro del Pacifico, con l’Australia a Ovest, il Sudamerica a Est e a Sud l’Antartide. Si tratta di una parte dell’oceano, di dimensioni enormi (37 milioni di chilometri quadrati, 3 volte e mezzo l’intera Europa), più lontana dalla terraferma. Questo è il motivo per cui è meno povera di risorse alimentari per le poche specie viventi. Rappresentando il luogo più lontano da raggiungere, finisce per essere la pattumiera del mondo: le correnti l’hanno trasformato in un contenitore di plastiche. Gli studiosi stanno monitorando il fenomeno, per poterlo comprendere e ipotizzare delle soluzioni.

Altre ricerche hanno evidenziato come anche la presenza di microrganismi e batteri del Pacifico meridionale sia inferiore a quella dell’Atlantico, quest’ultimo un oceano più “frequentato” e meno remoto da terre abitate. Gli esperti denunciano, di continuo, il rischio dovuto all’aumento della temperatura nell’atmosfera, I gas serra (tra cui l’anidride carbonica) contribuiscono ad acidificare l’acqua e distruggono l’intera vita: dei pesci, delle alghe, dei microrganismi e dei batteri. Gli scarichi industriali riversano sostanze pericolose per i pesci (eccessive quantità di azoto, nonché mercurio, piombo, cadmio, pesticidi) e, di conseguenza, per l’essere umano che li consuma. Si assiste a uno squilibrio letale: pesche intensive che impoveriscono la fauna marina, stravolgendo l’ecosistema così consolidato da secoli, a cui si contrappone l’immissione notevole di plastiche.

Al di là di quello che può essere rappresentato da un effetto immediato e visibile, come la presenza di rifiuti dondolanti sulle superfici marine, va, quindi, ricordato e sottolineato quello meno visibile ma che rappresenta un male all’interno delle masse marine e che ne mina la “popolazione” ospitata. Tali distese, oltre a essere contornate da rifiuti d’ogni tipo, potrebbero, a breve, rappresentare il vuoto assoluto: solo acqua, senza vita. Gli oceani e i mari sono strozzati, non respirano perché privi di ossigeno.

Il concetto chiave, inquietante, è che in questi “deserti”, la vita è impossibile. Il paradosso è che proprio i mari, da cui la vita è nata, siano, ora, avviati, a macchia di leopardo, verso la distruzione della vita stessa.

Attualmente, la maggior parte del pesce pescato nel Sud del mondo non viene consumata (per impossibilità economica d’acquisto) dalle popolazioni di queste aree. A beneficiare di tale pescato sono, infatti, i Paesi più ricchi del pianeta. Le conseguenze dell’agonia degli oceani le pagano (e le pagheranno) gli Stati più poveri, poiché le quantità, già ridotte, a loro riservate, saranno sempre di meno e avranno un costo più elevato.

Il mancato afflato del mare toglierà l’aria a coloro che già respirano a fatica. L’indifferenza delle nazioni ricche non contempla il quesito su chi siano i primi danneggiati. Il flagello, tuttavia, se non risolto, tenderà a colpire a catena e, difficilmente, ci si potrà salvare, neanche saltando su quelle isole di plastica che si ingrandiscono a vista d’occhio, in giro per un mondo senza ossigeno sia sotto sia sopra.