“Nessun contagiato in Italia è cinese. Ha funzionato la nostra quarantena”

Noi l'auto-quarantena l'abbiamo fatta davvero ed ha funzionato. I membri della nostra comunità, al ritorno in Italia dopo i festeggiamenti del capodanno cinese, sono rimasti in casa due settimane per senso di responsabilità, mentre gli italiani tornati dalla Cina non hanno osservato alcun periodo di isolamento volontario. E così oggi in Italia, tra i contagiati dal coronavirus, non c'è nessun cinese”, spiega a Interris.it Marco Wong, che oggi vive a Roma ed è presidente onorario di Associna (Associazione dei cinesi di seconda generazione). Prima di approfondire le ripercussioni economico-sociali dell'epidemia sul quarto gruppo etnico extraeuropeo più numeroso (300 mila persone), è utile ripercorrere rapidamente la storia di un personaggio fondamentale per l'odierna sfida dell'integrazione nell'Italia globalizzata. “Sono nato a Bologna e cresciuto a Firenze e Milano”, sottolinea Marco Wong, 57 anni. I nonni materni  emigrano sul finire degli anni cinquanta in Europa aprendo a Bologna un laboratorio di pelletteria. I genitori successivamente decidono di raggiungere i nonni materni in Italia, ed aprono quindi una simile attività artigianale a Firenze. La sua famiglia ha mantenuto costante il legame con il paese d'origine, unendo all'impegno imprenditoriale una luna serie di attività sociali e benefiche.

 

Quali danni produce l'emergenza-coronavirus sull'integrazione dei cinesi in Italia?
“Sicuramente l'epidemia ha ripercussioni molto negative sull'inclusione sociale.Si registrano episodi di grave intolleranza verso cinesi o persone che sembravano tali. Per esempio un uomo filippino è stato picchiato e costretto al ricovero in ospedale perché scambiato per un cinese. Sono esplosioni di furia irrazionale che non hanno alcuna ragione, tanto più che picchiare una persona non è certo la maniera migliore per stare lontani dal contagio. E in Italia nessun contagiato dal coronavirus è cinese”. 

Teme il dilagare della “sinofobia”?
“Situazioni deprecabili di intolleranza, simili a quelle di oggi, erano già accadute 17 anni fa per la Sars. Rispetto ad allora si è aggiunta la capillare pervasività dei social media che ci bombardano ogni minuto di clamorose e sensazionalistiche fake news diffondendo, ad una velocità incontrollabile e senza filtri, disinformazione e paura. Ad aggravare il quadro è il fatto che queste modalità terroristiche di espressione del panico di massa e della psicosi collettiva vengono ritenuti credibili da una larga fascia della popolazione e vengono veicolate. Sono pericolosissime menzogne che circolano ovunque senza un minimo di controllo critico”. 

Avete stimato gli effetti economici di questa situazione emergenziale sulla comunità cinese in Italia?
“Molte attività commerciali sono temporaneamente chiuse o funzionano in modo ridotto. Non si può non parlare delle ripercussioni economiche dell'epidemia anche se ovviamente la tutela della salute deve venire prima di tutto il resto. A livello globale lo scarso uso dei tamponi per verificare il contagio ha favorito la diffusione del coronavirus. E' stato un calcolo economico sbagliato. Investire fin dall'inizio dell'allerta sanitaria per sottoporre a tamponi quante più persone possibile avrebbe ridotto i costi umani, sociali ed economici dell'epidemia. L'economia ha sempre a che fare con i provvedimenti di sanità pubblica”. 

In Italia l'ostilità verso i cinesi sta aumentando?
“Rispetto al coronavirus, per la comunità cinese in Italia, si possono individuare due distinte fasi.  All'inizio, per diffidenza verso i cinesi, è crollato verticalmente il lavoro nei ristoranti, negli esercizi commerciali e nei saloni dei parrucchieri. Ora, nella seconda fase che stiamo vivendo, sta maturando negli italiani la consapevolezza che nessun cinese in Italia si è ammalato di coronavirus. E, quindi, gli affari continuano ad andare male ma al confronto della crisi iniziale si riscontra un minimo di normalizzazione”. 

Perché allora tante saracinesche ancora abbassate nelle attività economiche cinese?
“A fronte di un giro d'affari notevolmente ridotto, molti operatori ritengono più economico tenere chiuso per non dovere sostenere, in questa fase ancora critica, le spese che comporta la scelta di tenere aperti negozi, ristoranti e botteghe. E' un momento molto brutto. Speriamo che la paura mediatica venga spazzata via e anche grazie all'arrivo della bella stagione l'incubo dell'influenza svanisca”.

Quali misure avete adottato contro il virus?
“C'è stata una diffusa forma di auto-quarantena per senso di responsabilità. In Italia la comunità cinese ha osservato precauzioni ancora più rigorose di quelle introdotte dalle autorità. A livello locale e nazionale la nostra collaborazione con le istituzioni è stata costante. Siamo sempre a disposizione per fare tutto il possibile contro l'epidemia. Il dialogo e la collaborazione continueranno ad orientare la nostra azione individuale e collettiva”.

Prevede contraccolpi politici?
“Un clima di unità nazionale tra tutte le forze politiche è auspicabile di fronte all'emergenza-coronavirus. E ciò vale a prescindere dalla forma che potrà assumere in concreto questa convergenza tra i diversi partiti. Nell'accesa dialettica di questi giorni all'interno del dibattito pubblico, però, abbiamo percepito una spiacevole e dolorosa sensazione di strumentalizzazione politica. Non so se si formerà il cosiddetto 'governo amuchina' per gestire al meglio l'emergenza, però credo che abbassare i toni possa aiutare a trovare soluzioni e a spegnere un controproducente allarme sociale”.

Si sente più cinese o italiano?
“Avverto in me entrambe le radici culturali. La contraddizione del mio status di straniero nel proprio paese natale ha marcato la mia formazione e le mie ambizioni. Il mio sogno di bambino è stato quello di realizzare un giorno infrastrutture in giro per il mondo e nel luogo di origine. Nel corso degli anni, sentendone la forte necessità, ho affiancato ai miei studi liceali anche lo studio della lingua cinese, ed in seguito ho frequentato diversi corsi di perfezionamento all'Istituto di Lingue di Pechino. In seguito mi sono iscritto alla facoltà di Ingegneria Elettronica a Firenze”.

Come è diventato un riferimento per l'asse economico Italia-Cina?
“La mia famiglia si è trasferita a Milano e il l'ho seguita continuando gli studi al Politecnico di Milano e specializzandomi in Telecomunicazioni. Durante gli studi universitari ho lavorato nei laboratori di ricerca e sviluppo di Italtel. Una volta laureato, ho iniziato a lavorare alla Pirelli, fino al trasferimento in Cina come “product manager” all'ufficio di rappresentanza a Pechino. Passato successivamente in Tim, sono diventato direttore generale e consigliere d'amministrazione della joint venture di Tim con China Unicom, il secondo operatore cinese, realizzando e lanciando il servizio di telefonia cellulare nella Manciuria, regione nel Nord Est della Cina”.