Adriana Moldovan racconta la chiesa greco-cattolica in Transilvania. L’intervista a Interris.it

L'intervista di Interris.it ad Adriana Moldovan, ingegnere civile, studi teologici alla Lateranense, voce nota agli ascoltatori di Radio Maria Romania

Il primo atto ufficiale di tolleranza religiosa in Europa fu emesso in Transilvania nel 1568. L’editto di Turda proclamò che la fede era un dono di Dio e proibì ogni persecuzione per motivi religiosi. Circondata dall’abbraccio dei Carpazi, la Transilvania è una sintesi del continente europeo, un ponte fra Occidente e Oriente. Oggi romena, per secoli è stata contesa fra l’impero di Vienna e quello di Istanbul. Su uno sfondo più antico, quello della fede, stanno le cupole di San Pietro e Santa Sofia. E poi, ancora più indietro nel tempo, la contesa fra Traiano e Decebalo. Alla fine del Seicento parte dell’ortodossia tornò in comunione con Roma: nacque la Chiesa greco-cattolica. Adriana Moldovan, ingegnere civile, studi teologici alla Lateranense, voce nota agli ascoltatori di Radio Maria Romania, ci racconta questa terra dall’identità ricca e complessa, ci indica le impronte lasciate da un passato di sofferenza e rinascita. È utile sperimentare questi suoi ricordi per comprendere il presente: l’Ucraina non è lontana da qui.

L’intervista

Adriana, lei è nata e cresciuta in Transilvania, un ponte fra occidente e oriente, multiculturale e multireligioso. Si sente più transilvana o romena? 

“Mi chiede quale sia la mia identità. Le risponderei che anzitutto sono una figlia di Dio, un essere umano di sesso femminile, di fede cattolica, nata da una donna e da un uomo che formavano una famiglia di cognome Moldovan, nella città di Tîrgu Mureș, nella provincia di Mureș nella regione storica della Transilvania in Romania. A mio avviso quest’ordine mi rivela chi sono, chi siamo. Senza Dio e una famiglia, nessuno può essere quello che è. Poi, è vero, sono nata e vivo in Transilvania. Senza la Transilvania non può esistere la Romania. Un po’ come la mia appartenenza. Dunque, non posso essere transilvana senza essere rumena, come non posso essere semplicemente romena senza sentirmi un po’ italiana, o francese, o ungherese, o … europea. Diversamente sarei una povera isola e le isole sono… isolate”.

Suo padre era un prete greco-cattolico, ordinato clandestinamente durante il regime comunista. Ci descriva il dono di questa vocazione e come è stata vissuta e condivisa in famiglia. 

“Mio padre Petru era un sacerdote uxorato greco-cattolico, ordinato clandestinamente nel 1986. Il suo grande desiderio era servire la gente. Come medico non poté farlo perché il regime non gli permise di studiare medicina. Era nato nel 1931 in una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Il governo li definiva in modo spregiativo “chiaburi”, contadini ricchi, perché osavano possedere la terra. Per integrarli nel nuovo sistema dovevano essere spogliati di tutto. Persino dei carri e dell’aratro. I loro figli non potevano frequentare l’università, per integrarsi in questo modo nella classe operaia. Mio padre fu cancellato dall’elenco delle matricole senza alcun avviso. Così nella vita ha fatto il contabile, assieme a mamma.  Fino al 1986 siamo stati una famiglia normale. Pochi anni prima dell’ordinazione, papà conobbe il cardinale Alexandru Todea, chiamato lo ‘Zio’ dai fedeli perseguitati, che per la fede aveva trascorso 14 anni nelle carceri del regime. Fu Todea alla base della sua vocazione e fu lui a ordinarlo in segreto. Dal 1948 infatti la Chiesa greco-cattolica romena era fuori legge. Poi ci fu la mia vocazione. Germogliò grazie a nonna Berta e mamma Ana, senza che se ne rendessero conto, senza pensarlo o volerlo. Sono nata nel 1962 e da bambina mamma mi raccontava di Gesù, di ciò che ha fatto, mi spiegava il significato del Natale, della Pasqua, feste che tutti celebravano e che il regime non aveva potuto cancellare. Sì, c’era chi festeggiava il Capodanno e il 30 dicembre era considerato Festa della Repubblica, ma noi, i cristiani, celebravamo tutt’altro! A 14 anni, dopo la preparazione della nonna, fui portata nella chiesa ortodossa a confessarmi, e poi a fare la comunione. Era questa l’abitudine cattolica, mantenuta dai fedeli. Gli ortodossi non avevano quest’uso, per cui mi sono trovata da sola. È stata la prima volta. Nonno Alexa rimase invece a casa. Sul momento non capii il perché, ma dopo gli diedi ragione. Passarono gli anni, dopo il liceo mi iscrissi a ingegneria all’Università di Timișoara, ma lo Spirito Santo soffiava in famiglia. Dopo aver ottenuto il posto di lavoro (una storia al 100% comunista) il Signore volle che conoscessi le suore della Congregazione (clandestina) della Madre di Dio. Il mio riferimento fu Suor Maria Ernesta Oancea e la mia vita iniziò così a percorrere due corsie: una ufficiale, come ingegnere, e una clandestina, come suora della Madre di Dio. Dopo gli sconvolgimenti dell’89 e dopo un lungo periodo di dubbi, tornai alla vita di ingegnere, per ritrovare poi nuovamente la vocazione e riprendere l’abito religioso in una congregazione italiana, di rito latino. Passai più di dieci anni a Roma, ma alla fine lasciai di nuovo e tornai a casa da mia madre, vedova dal 1997, con cui vivo tuttora”.

Una vocazione, la sua, forgiata, e forse condizionata, da una storia più grande e complessa. Come quella di tanti cristiani al di là della cortina di ferro, anche dopo la caduta del muro. 

“Sì, ho vissuto periodi di domande non facili, di tentativi di risposta, di prove e di grandi sollievi spirituali e non mi pento di nulla: è stato il mio percorso. Cambierei poco o nulla se tornassi indietro. Trovo che la mia vocazione è stata molto ‘lavorata’, provata e tengo molto ad essa, ringraziando Dio per avermi messo la mano sulla testa al momento opportuno”.

Torniamo alla sua casa natale, dove il capofamiglia era un prete, medico mancato, che faceva il contabile. La vostra casa era diventata una piccola chiesa? 

“Credo abbia ragione: la nostra casa era una piccola chiesa. Lo dico adesso, guardando indietro nel tempo ma forse non l’avrei detto in quel momento. Dopo l’ordinazione di papà, come famiglia iniziammo a vivere la nostra fede più ‘liberamente’. Ogni domenica mio padre andava a celebrare la messa da una vecchia signora, accompagnato naturalmente dal ‘securista’, l’agente della polizia segreta, che lo seguiva da lontano. A casa, ogni giorno scorrevano le preghiere, da parte di mamma soprattutto. Caduto il regime, i greco-cattolici si trovarono senza chiese, confiscate nel ‘48 e la nostra casa diventò sì una piccola domus ecclesiae dove il giardino era pieno di gente, soprattutto la domenica. A casa si faceva la catechesi per i bambini, in vista della prima comunione. Fra le mura di casa Moldovan è rinata la corale, si è messa in moto l’attività sociale della Chiesa a favore dei poveri e degli anziani. Sono molti i ricordi di quel tempo di rinascita”.

Sono passati più di trent’anni dalla caduta del regime comunista. Quante aspettative si sono realizzate quante sono state tradite? 

“Lei ha il dono di scavare nelle memorie e nei sentimenti! Sì, abbiamo molto sperato. Siamo stati come il nascituro che non sa niente e che forse pensa che tutti vogliano quello che lui stesso desidera. Ma il progetto di Dio non era il nostro. Per primo, tutti speravamo che i nostri fratelli ortodossi ci aspettassero a braccia aperte per ridarci le nostre chiese, dicendoci magari ‘ecco, ho conservato ed ho custodito quello che era tuo, ora tienilo e fanne quello che desideri’. Di sicuro avrebbero ricevuto molto di più di quello che aspettavano di ricevere. Ma la realtà è lontana dai desideri! Poi ci siamo adattati. Passando il tempo abbiamo visto che c’è molto da ripensare e rifare. Ci sono quelli che pensano che la Chiesa greco-cattolica sia stata come congelata nel tempo e che ora ha bisogno di aggiornamenti Invece no! La Chiesa greco-cattolica romena è stata più viva che mai, aggiornata a livello pastorale e persino teologico grazie alla Chiesa latina, più tollerata in quegli anni difficili. Attraverso i suoi fedeli e i suoi pastori è tornata alla luce più attiva e più setacciata. Un mio caro padre spirituale dice spesso: ‘era meglio quando si stava peggio!’, per dire che allora, anche se pochi, ci conoscevamo e c’era lievito. Negli ultimi trent’anni la Chiesa greco-cattolica si è confrontata con difficoltà sociali che non conosceva, ha dovuto ripensare la sua azione pastorale. Molti, pensando che siamo una Chiesa orientale, credono ancora utile ripeterci che siamo in fondo degli ortodossi e dobbiamo rifarci alla loro tradizione. Non capiscono che la Chiesa greco-cattolica è stata purificata, ha operato da sé una distinzione fra Tradizione e tradizioni, che ha camminato più di quanto si pensa. E poi, dobbiamo essere realisti anche se non lo vogliamo: la Chiesa greco-cattolica è parte della società in cui si trova, e perciò riflette i suoi pregi e i suoi difetti, come ogni altra chiesa, per cui troviamo in essa ogni questione aperta, compresa quello della formazione, che scuote la società odierna”.

Greco-cattolici, cattolici latini, ortodossi, e poi i riformati. Ogni villaggio transilvano è un mosaico confessionale. Ci unisce ancora il battesimo, c’è voglia sincera di ecumenismo o serve una svolta?

“La Transilvania è una terra bella da moltissimi punti di vista, come raramente capita. Ogni suo piccolo villaggio riflette una realtà più grande e incarna una lezione di vita che qui si sperimenta normalmente e serenamente, giorno per giorno. Molti hanno provato a rompere la fraternità intessutasi in questa parte di Europa, ritenuta strana e persino (forse) pericolosa. Ma qui, in questa Transilvania così singolare, per poter essere veramente fratelli, le festività si vivono due volte. Mi spiego: qui i nazionalismi, fomentati da chi non capisce un granché della realtà, fanno sì che ci sia gente che pensa che i romeni possano essere soltanto ortodossi, che l’ortodossia rappresenti la nazione, che i cattolici siano per forza ungheresi, che siano contro l’integrità del paese e aberrazioni del genere. Ma la gente normale non ha di questi pensieri, che non gli appartengono, e festeggia la Pasqua latina e la Pasqua ortodossa; celebra il giorno dei defunti per i latini, il giorno dei defunti per gli ortodossi. È da vedere come la gente partecipa alle feste. Le feste annuali avvicinano i cuori. Circa il battesimo, sì, penso proprio che il battesimo sia il cuore di questo avvicinamento, un cuore invisibile, a cui non pensiamo forse abbastanza. Quanto all’ecumenismo, visto e vissuto come apertura verso il fratello, lo ritengo un cammino da promuovere nelle famiglie, a scuola, nelle comunità e nella società. Poi, la festa attorno a una tavola condivisa aiuta”.

La Chiesa martire come vive decenni dopo il significato di sacrificio?

“Forse si è parlato troppo del sacrificio oppure non si è trovata la modalità giusta per farlo. I giovani di oggi non amano troppo questa parola, questo modo di testimoniare i principi, i valori della nostra appartenenza. A volte mi domando se loro abbiano dei principi. E per saperlo, forse dovremmo metterci più seriamente all’ascolto, lasciando che loro, se ne sentono il desiderio, ci scoprano. Si è scritto molto sul tema, che comunque è pochissimo rispetto a quello che si è vissuto. Ma è buona cosa che restino scritte delle testimonianze. La Chiesa martire è tornata alla luce del sole, come ha detto bene il papa emerito Benedetto XVI, setacciata, piccola e fragile. Forse doveva restare così, chi lo sa, per meglio testimoniare; doveva forse mantenersi stretta attorno all’essenziale, al semplice. Sarebbe stato forse questo il suo attuale sacrificio, la sua testimonianza”.