In-work poverty, adesso parliamo di cose serie

In questi mesi, uno degli argomenti che si è palesato alla ribalta su molti giornali, fisici e on-line, è quello relativo alla difficoltà di trovare lavoratori, in molti settori con un focus, forse anche troppo enfatizzato, sul settore alberghiero e della ristorazione. Se, dalla parte datoriale, si attribuisce all’esistenza del Reddito di Cittadinanza la bassa offerta di lavoro, la questione cambia completamente qualora si intervistassero i lavoratori che raccontano di bassi salari e di condizioni di lavoro talmente penalizzanti da rendere inaccettabile il contratto proposto.

Il biennio appena trascorso, segnato dal contrasto alla pandemia di Covid-19, tra quarantene, lockdown, smart-working, etc, ha sicuramente modificato la percezione del lavoro nelle persone che si sono concentrate maggiormente nella valutazione dell’utilità personale generata dall’impegno professionale, sia dal lato meramente monetario del salario e, eventualmente, dei benefit accessori sia da quello del bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa.

Se prima, molti, lavoravano perché “bisogna farlo”, quindi, oggi gli stessi cominciano a valutare quale sia realmente il ritorno del loro impegno e la prima cosa che salta all’occhio è l’inadeguatezza dei salari pagati, più o meno, in ogni categoria del lavoro dipendente.

Alt… qui sorgono immediatamente le obiezioni di imprenditori e datori di lavoro in senso lato che parlano di costo del lavoro esorbitante e senza eguali al mondo (è falso, visto che in Europa ci sono stati molto più costosi da quel lato, in primis Belgio e Francia) e di redditività spesso molto compressa (e qui la questione è parzialmente vera) ma questi dimenticano che i lavoratori dipendenti sono uno dei fattori produttivi, potenzialmente quello a più elevato valore aggiunto, e che il mercato del lavoro soggiaccia alle stesse regole di quello dei prodotti o dei servizi che si vadano a proporre. Questo cosa significa? Semplicemente che se la domanda di lavoro (la parte datoriale) non incontra l’offerta (i lavoratori) allora il prezzo da pagare (il salario) sale a un livello più elevato, tutto qui.

Negli ultimi 30 anni, infatti, i salari italiani hanno subito una continua compressione, risultando gli unici che, in aggregato e in termini reali, abbiano subito un arretramento rispetto agli altri stati in OCSE e, in questo senso, si è ampliato anche il segmento dei cosiddetti working poor, cioè quelle persone che, pur lavorando non ricevono un salario adeguato a sostenere un normale tenore di vita.

Ora, questa categoria è ovviamente ampia e diversificata, perché comprende sia chi lavori a intermittenza, come i lavoratori stagionali, sia chi lavori a tempo pieno ma con una remunerazione contrattuale molto bassa; inoltre si parla sempre di una classificazione relativa che deve considerare ogni singolo caso che può essere influenzato anche dalla situazione famigliare, dalla zona geografica di residenza, dalle tipologie contrattuali, etc.

Diciamo che, come riporta un articolo di Michele Bavaro su lavoce.info a livello statistico si considerino appartenenti alla categoria dei lavoratori poveri coloro che se dovessero vivere solo con il proprio salario rischierebbero di trovarsi in stato di indigenza e, in particolare, che abbiano percepito in un anno un reddito non nullo ma inferiore al 60% del reddito mediano nel paese.

Qui, osservando l’andamento della povertà relativa tra il 1990 e il 2017, si mostra che l’incidenza dei lavoratori poveri sia passato dal 26% circa del totale al 32,4%, questo spinto anche dalla proliferazione di diversi tipi di lavoro che richiedano un livello minimo di competenze come certi servizi al turismo o alle famiglie, ma, in ogni caso, si tratta di un indice importante di quello che sia il mercato del lavoro nel Paese.

Non si tratta, come si legge dalle cifre sopra riportate, di un problema di questi ultimi periodi ma di una situazione strutturale, da decenni, di cui, però, si è presa piena coscienza solo ultimamente, complice il periodo pandemico che ha spinto a guardare la questione “lavoro” da un nuovo punto di vista. Ma come uscirne?

Diciamo che alcune forze politiche e sindacali vorrebbero spingere verso un salario minimo legale ma che, come racconta la situazione degli stati in cui sia presente, non sarebbe risolutivo nel canton Ginevra, ad esempio, il salario minimo previsto è di 23 chf all’ora, pari a circa 3’600 chf al mese ma la soglia di povertà è a circa 4’000 chf), mentre le posizioni degli industriali parlano di costo del lavoro e bassa produttività come ostacoli per una qualsiasi ipotesi si aumento salariale cospicuo. Come al solito, però, la verità si trova nel mezzo.

La prima cosa da considerare è che il basso livello reddituale nel Paese sia la prima causa della bassa produttività odierna, sia per la debolezza conseguente della domanda interna, che spinge il circolo vizioso bassi salari => minore domanda interna => minore produttività/redditività => bassi salari, sia per il ridicolo livello di coinvolgimento dei lavoratori nelle politiche industriali, cosa provata dall’elevato numero di dimissioni, anche alla cieca, che si è verificato nei primi mesi di quest’anno sia dal fatto che quasi la metà dei lavoratori italiani stia pensando di cambiare lavoro entro la fine del 2022 (come avevo raccontato in un articolo pubblicato un paio di mesi fa). Cosa c’entra questo con i lavoratori poveri? È evidente che i primi a voler cambiare siano coloro che si sentono poco gratificati e il salario è uno degli elementi principali nelle decisioni di cambio lavoro. In Italia, infatti, contrariamente a una certa vulgata che si è affermata in questi anni sono proprio i soggetti più formati e ad elevato potenziale che si trovano in situazioni di svantaggio, sia a livello di proiezioni di crescita sia a livello di inquadramento e di relativo emolumento.

Esiste, mediamente, una sorta di horror excellentiae, se mi si passasse il latinorum, nelle aziende che paradossalmente porta i lavoratori più formati a trovarsi in fondo alla distribuzione reddituale e non è una mera questione di “titolo di studi errato” ma proprio una questione (non) culturale radicata, quasi la paura che qualcuno possa spodestare i vecchi equilibri e rendere barcollanti certe posizioni di privilegio.

Qui si concentra una buona fetta di questi working poor e qui si palesa uno dei motivi dell’incapacità di crescere del paese, nella non volontà di investire non solo a livello di ricerca e sviluppo tecnologico e di prodotto ma anche e soprattutto nel capitale umano e da qui anche il grande numero di giovani che fuggono (o sognano di fuggire) all’estero.