Irpinia 1980, quarant’anni dopo: “Sembrava primavera, poi la strage”

A Interris.it il ricordo del professor Raffaele Loffa, nel 1980 sindaco di Carife, nell'Avellinese, uno dei comuni più colpiti dell'entroterra campano: "Rimasi senza voce. Lo rifarei anche oggi"

“Sembrava non volesse finire”. Un minuto e mezzo in cui la terra tremò, con quella violenza che il cuore dell’uomo non è in grado di concepire. Novanta secondi, interminabili per quanto brevi. Un rumore indefinito e indefinibile, coperto dai botti sordi dei soffitti crollati, delle pareti spezzate, dei ricordi di una vita ridotti in polvere. In troppi casi, senza nemmeno il tempo di guardarsi negli occhi. Sembrava non volesse finire quella scossa che fu il culmine di uno strano pomeriggio, il 23 novembre 1980. “Una luce rossa”, “un’aria calda”, come se il vento uscisse fuori dal terreno.

Sembrava primavera e invece non era che l’inizio dell’inverno, lungo e freddo. Il terremoto colpì dove faceva più male, tagliando l’Irpinia fuori dalle comunicazioni nazionali. Niente immediate edizioni straordinarie, nessun collegamento né telefonate, se non dopo diverse ore. Quando la coltre acida esalata dai resti delle case si diradò la prima volta, il cuore del Sud si ritrovò da solo. Stretto fra le urla disperate di chi era già passato oltre la consapevolezza di essere vivo e quelle di chi da quelle macerie non era riuscito a tirarsi fuori.

Irpinia, un tramonto rosso

Era quasi sera. Non l’ora di cena ma nemmeno il pomeriggio. Già notte per tanti paesi dell’entroterra campano, che col favore del buio chiudevano una dura giornata trascorsa nelle campagne per la semina e la raccolta delle olive. Ma quella sera, la serenità del pasto in famiglia fu squarciata dal boato. Nessuno avvertì, niente lasciava presagire quello che sarebbe accaduto. Solo quella luce livida e quel calore anomalo, un momento di quiete dalla pioggia che aveva sferzato nei giorni precedenti le colline irpine.

L’ultima luce che migliaia di persone avrebbero visto di lì a molti giorni. In quel momento il tempo si fermò, inesorabile così com’era trascorso. Lo sguardo di chi scampò al disastro contemplava la fine della vita come l’aveva conosciuta fino a quel momento. “Fate presto”, titolò Il Mattino di Napoli. Un appello per la zona del cratere ma anche affinché nessuno fosse dimenticato, nemmeno nel cuore della regione.

La storica prima pagina de Il Mattino di Napoli

Il sisma a Carife

Raffaele Loffa, insegnante di lettere presso la locale scuola media ed eletto proprio nella primavera di quell’anno, di uno di quei paesi era il sindaco. Carife, nucleo della Baronia, adagiato su uno sperone di roccia che sovrasta la valle del fiume Ufita. Addormentato, come le ore serali imponevano dopo il lavoro nei campi. Ferito dal sisma, ma la storia non se ne sarebbe ricordata. “Ricordo il terremoto del 1962 – racconta a Interris.it -. Allora avevo 18 anni e vissi la scossa come la vive un ragazzo. C’è da dire che fu meno intensa di quella dell’80. Quando questa arrivò ero appena rientrato dal mio consueto giro del paese e capii subito che stava succedendo qualcosa di grave. Presi in braccio mia figlia e fuggii assieme a mia moglie mentre mobili e soprammobili cadevano. Non riuscimmo ad aprire subito la porta per via delle continue inclinazioni delle pareti. Quando uscimmo in strada raggiungemmo due nostre zie. Una di loro impregnata di kerosene, per essere stata colpita da una stufa”.

Il ricordo del sindaco

Sindaco e, quindi, figura di riferimento per un’intera comunità. Ma nei minuti successivi alla scossa non ci fu nemmeno il tempo di rendersene conto. “Io abitavo alla periferia di Carife e, dopo che riuscii per la prima volta a guardare in direzione del centro storico, mi resi conto che il paese era quasi sparito in una nube di polvere. Dalla zona sottostante salivano non delle urla ma degli urli, incomprensibili, disumani. Contammo 6 morti e 60 feriti. Fummo il paese più colpito nella nostra zona, poiché i nostri vicini riuscirono a effettuare ricostruzioni più sostanziali dopo il terremoto del ’62”.

E proprio dalle comunità circostanti giunsero i primi aiuti: “Loro avevano subito meno danni e scesero subito, dalle vicine Vallata e San Nicola Baronia, per prestare soccorso ai Carifani. Portarono acqua, perché l’acquedotto subì danni gravissimi, ma ricordo soprattutto le tante casse di salsa di pomodoro. Poco dopo arrivarono i pompieri di Foggia”.

Carife, Irpinia - Foto © Carife.eu
Carife, Irpinia – Foto © Carife.eu

Il recupero delle vittime

A essere ferita non fu solo la popolazione di Carife, ma anche la sua memoria. Che, in quei frangenti, divenne il problema più urgente da affrontare: “Il vecchio cimitero, già in disuso, fu letteralmente raso al suolo. Fu una scena orrenda. Fui costretto a vietare il via vai dei cittadini in direzione del camposanto, dove cercavano di ricomporre i resti dei propri cari. Quando finalmente i Vigili del fuoco riuscirono a impiantare a Carife il proprio nucleo operativo, iniziammo a sgomberare le strade, per permettere ai soccorsi di arrivare più agevolmente. Poi recuperammo la prima vittima, la persona in quel momento più anziana del paese, in un’abitazione davanti al Comune”.

Il primo corpo di una conta drammatica: “Altre tre persone morirono tutte nella stessa casa, una di queste fra le nostre braccia, mentre la portavamo fuori. Un’altra, che fu mia compagna di scuola, travolta dal soffitto della sua abitazione. Ne contammo ufficialmente cinque, poiché la sesta fu registrata nel suo paese natale”.

Una riunione del nucleo operativo. Con il microfono, il sindaco Loffa – Foto © Raffaele Loffa/Carife.eu

L’arrivo della neve

La prima notte all’addiaccio, l’arrivo dell’Esercito (un distaccamento di Altamura), l’allestimento dell’ufficio comunale (che fu demolito) in una tenda (“Con un timbro e un blocco di carta intestata”), in un paese completamente privo di servizi e con l’incombenza della distribuzione dei beni di prima necessità. Il tutto sotto una coltre di neve, che iniziò a cadere copiosa, avvolgendo con un manto bianco le macerie dei paesi distrutti.

“I beni arrivarono in grande quantità, soprattutto coperte e latte. Questo, in particolare, era tanto che la gente cercò di trasformarlo in parte in formaggio. Ma più del cibo si cercavano giacche a vento e doposci, le uniche calzature che permettevano di muoversi fra la neve e i resti delle case. Io, come sindaco, cercavo di mantenere l’ordine in quella situazione, garantendo aiuto e assistenza a chiunque, specie a coloro che avevano perso ogni cosa. La distribuzione dei beni fu piuttosto complicata. Ricordo che rimasi completamente senza voce. Mi aiutò una crocerossina, con del latte bollente rinforzato con del cordiale, dicendomi: ‘Sindaco, abbiamo bisogno della sua voce'”.

Il discorso di Pertini

A due settimane dal terremoto, fra scosse di assestamento “chiare e terrorizzanti” e la macchina dei soccorsi che iniziava a muovere consistenti contributi, la prima buona notizia. “Nella vicina Flumeri rividi mia moglie e mia figlia dopo quindici giorni e per la prima volta riuscii a cambiarmi i vestiti. Stavo cercando di riposare qualche ora quando il sindaco della città, nonché mio amico, mi chiamò per dirmi che una carovana di roulotte era appena stata consegnata al comune. Le offrì a Carife, poiché loro non ne avevano bisogno. Mi rivestii e le scortammo in paese, in mezzo a una bufera di neve e per strade secondarie. Allestimmo una roulottopoli nel campo sportivo del paese”.

Aiuti che arrivarono ma che furono mossi in ritardo. Lo disse l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, criticando aspramente la non immediatezza dei soccorsi quando “ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi”.

La chiesa dell’Addolorata a Carife, semidistrutta – Foto © Raffaele Loffa/Carife.eu

Il dopo-sisma

Il discorso del Capo di Stato “fu di una forza incredibile. Aveva ragione, dopo 3-4 giorni non era ancora arrivato nessuno. E la cosa ancora più grave è che nessuno pagò per quei morti, né per gli sprechi, né per le costruzioni fatte male. E si parlò di 60 mila miliardi mossi per l’Irpinia, la più grande mobilitazione di denaro pubblico”. Che non servì a far decrescere un bilancio che, oggi, si attesta a circa 3 mila vittime.

“Ricordo che quando mi misi in contatto con la Regione Campania, dovetti specificare il nome del paese lettera per lettera. Non sapevano nemmeno dove fossimo… Negli anni successivi si sarebbe parlato molto degli sprechi. All’Irpinia venne applicato il modello utilizzato in Friuli, con un’industrializzazione in un territorio a vocazione quasi totalmente agricola. Si trattava di industrie già in difficoltà che, a parte pochissime eccezioni, finirono ben presto per chiudere. E sul reinsediamento delle persone colpite, vennero distribuiti centinaia di prefabbricati a chi si poteva dare semplicemente il contributo per la ricostruzione. Qui a Carife c’è ancora chi aspetta il decreto per la ricostruzione della propria casa”.

Un caseggiato di prefabbricati alla periferia del paese – Foto © Raffaele Loffa/Carife.eu

Senza voce

Oggi Carife è un paese addormentato, custode delle memorie del Sannio, immerso nella sua quiete lungo la strada che, dall’Ufita, sale verso Trevico, il tetto della Campania. Una comunità composta in prevalenza da adulti, soggetto a quel fenomeno di spopolamento tipico di tanti piccoli centri dell’entroterra campano, nonostante il rinnovamento quasi totale del patrimonio edilizio. E che conserva su di sé il ricordo di quello strano mese di novembre. “Ricordo il senso di comunità che si respirava prima del sisma e che cercammo di mantenere nelle notti all’addiaccio, facendoci forza a vicenda attorno ai fuochi, fra le scosse che continuavano. E ricordo le tante amicizie nate con la macchina della solidarietà: don Peppino, della Caritas di Lodi, suor Giacinta, che andava di casa in casa a portare conforto. Ma anche un console olandese, che portò personalmente 14 case prefabbricate in mezzo alla neve”. Prove concrete di umanità durante una delle prove più difficili vissute dal nostro Paese. Gesti per cui, come ricorda il professor Loffa, vale la pena continuare a lottare: “Oggi, a quarant’anni dal terremoto, posso dirlo: se tornassi indietro rifarei le stesse cose che feci allora, perché le uniche possibili in un simile tremendo frangente”. Ma soprattutto, “sceglierei ancora di restare senza voce”.