Misurata la massa di un buco nero

Un buco nero milioni di volte più “pesante” del nostro sole. È questo il sorprendente risultato della misurazione, avvenuta nel tempo record di due sole ore, della quantità di materia contenuta all’interno di questi misteriosi oggetti cosmici. Le cifre sono di dimensioni “spaziali”: il buco nero presente nella galassia denominata Ncg 1097 ha una massa pari a quella del sole…moltiplicata per 140 milioni di volte. Il risultato, pubblicato sull’Astrophysical Journal, si deve al gruppo dell’istituto giapponese Sokendai, coordinato da Kyoko Onishi che sono riusciti nella misurazione grazie al radiotelescopio Alma posizionato sulle Ande cilene e le cui antenne sono “Made in Italy”.

Misurare la quantità di materia presente in un buco nero non è un compito facile. Finora il metodo più comune calcolava la velocità dello spostamento delle stelle che popolano la galassia, una tecnica con molte limitazioni che la rendono applicabile solo in rarissimi casi. La nuova metodologia usata dagli scienziati del team giapponese, diversamente, misura lo spostamento dei gas dalle regioni centrali della galassia verso il “Black hole”. Riuscire a comprendere le misure di questi enormi “netturbini spaziali” ha importanti implicazioni per lo studio dell’intero universo e dell’evoluzione delle galassie. La maggior parte di esse, infatti, presentano un buco nero al proprio centro.

Solo pochi giorni fa, a fine maggio, era arrivata una nuova soluzione sui meccanismi che regolano i giganti neri. Immagini straordinarie provenienti dal telescopio spaziale Hubble avevano permesso di chiarire il mistero dei potentissimi getti di materia emessi dai buchi neri a velocità prossime a quelle della luce. Analizzati da un gruppo di astrofisici coordinati da Marco Chiaberge, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), i dati di Hubble hanno fatto comprendere che questi fenomeni cosmici hanno origine da galassie che si sono fuse con altre galassie a seguito di uno scontro cosmico. Pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal, allo studio ha partecipato anche un altro italiano, Roberto Gilli, dell’Inaf.