CACCIA AI CRISTIANI

Ventisette marzo: un giorno segnato dal sangue. Quello degli innocenti, soprattutto donne e bambini, massacrati a Lahore in Pakistan mentre celebravano la Pasqua in un parco giochi. Ma anche quello dei 7 trappisti del Monastero di Notre Dame dell’Atlante di Tibhirine (Algeria) che 20 anni fa conobbero il martirio. Sequestrati all’interno della struttura dalle milizie del “Gruppo Islamico Armato” e tenuti in prigionia per due mesi, furono uccisi il 21 maggio 1996 senza che la comunità internazionale potesse fare nulla per il loro rilascio. Storie di vite di frontiera. Di chi professa la propria fede in luoghi dove multiculturalismo e libertà di coscienza sono visti come una minaccia per l’elite dominante. E il messaggio cristiano, con i suoi espliciti riferimenti all’amore universale, alla pace, e all’uguaglianza, diventa un’insopportabile spina nel fianco. “Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi”, valeva per gli Apostoli e vale per chi ancora oggi porta la Buona Novella nel mondo, con la sua attività pastorale o anche solo con la testimonianza di una vita ispirata ai valori evangelici.

“Ancora una volta l’odio omicida infierisce vilmente sulle persone più indifese”, uno schiaffo che Papa Francesco ha voluto inviare non solo ai gruppi fondamentalisti che dal Medio Oriente all’Asia, passando per l’Africa, pianificano e attuano le stragi di cristiani ma anche a una comunità internazionale addormentata, a un Occidente ormai arroccato nelle proprie paure, debole di fronte alle violenze perpetrate a cadenza regolare nei confronti di migliaia di fedeli. Perché dove c’è un indifeso c’è sempre uno Stato, una comunità, incapace di proteggere, di tutelare. A volte per inadeguatezza, altre per connivenza, più o meno esplicita.

L’ultima World Watch List, il rapporto annuale redatto dall’associazione Porte Aperte, parla chiaro: la persecuzione di cristiani a livello globale, in 12 mesi, è cresciuta di 2,6 punti. Oltre 7.100 persone sono state trucidate a motivo della loro fede (circa il 61% in più dell’anno precedente, quando furono 4.344) mentre le chiese assalite sono state 2.400 (il 125% di attacchi in più rispetto ai 1.062 accertati nel 2014). Coprendo il periodo che va dal 1 Novembre 2014 al 31 Ottobre 2015, la WwList ha dunque misurato il grado di libertà dei cristiani nel vivere la loro fede in 5 sfere della vita quotidiana: nel privato, in famiglia, nella comunità in cui risiedono, nella comunità che frequentano e nella vita pubblica del Paese in cui vivono.

Il quadro tracciato è a tinte fosche. Il principale fattore persecutorio è rappresentato dall’estremismo di matrice islamica. Basti pensare che esso riguarda ben 35 dei primi 50 Paesi inseriti da “Porte Aperte” nella sua classifica. Decisiva è stata, in questo senso, l’ascesa dell’Isis in diverse nazioni arabe del bacino del Medio Oriente. Come in Iraq, passata dal terzo al secondo posto, o in Siria, che, in confronto al 2015, è scesa di una sola posizione (era quarta mentre ora è quinta) nonostante l’attacco incrociato di Russia, Damasco e coalizione a guida americani che ha strappato intere regioni al Califfato. Dove non c’è il Daesh ci sono altri gruppi a spargere terrore e distruzione. A colpire in Pakistan a Pasqua sono stati i Talebani, attivi anche in Afghanistan. Nei due Paesi asiatici le prevaricazioni anti cristiane sono cresciute, con la conseguenza che entrambi hanno guadagnato posizioni nella Wwl e restano nella Top 10. Stesso scenario in Africa. In Nigeria, ad esempio, le violenze di Boko Haram e dei temibili mandriani Hausa-Fulani hanno costretto migliaia di persone alla fuga. Anche in Kenya molti cristiani stanno progressivamente lasciando le zone a maggioranza musulmana. Un esodo biblico, un fiume di persone che cerca asilo in Paesi più tolleranti e verso il Mediterraneo.

Non è solo l’integralismo a rendere aspra la vita di chi crede in Gesù. A volte è la politica a fomentare l’odio. Da una parte c’è il “nazionalismo religioso”, folle residuo della teocrazia che trasforma i non appartenenti alla fede di Stato cittadini di serie B. Così vediamo l’India di Narendra Modi, leader dei nazionalisti Indù, passare dal 21esimo al 14esimo posto. Dall’altra c’è la “paranoia dittatoriale”, propria di regimi socialisti e comunisti. Lo Corea del Nord, con i suoi campi di prigionia, resta prima nel ranking. Ma ci sono anche il Laos e la Cina, che non crescono e non calano. Restano lì, tra i 50 Paesi in cui adorare la Croce e professare il Vangelo è ancora un reato che può costare la libertà e, a volte, la vita.