Paolo Rumiz: “L'Europa imiti i monasteri benedettini”

L'Europa rischia di trovarsi faccia a faccia con il proprio lato oscuro per la terza volta in appena un secolo. I danni della crisi finanziaria globale sono peggiori della sola povertà economica, arrivano a intaccare gli animi. Nel Vecchio Continente serpeggia la divisione, ci si rinchiude in identità forse mai esistite storicamente che danno l'illusione di sentirsi più piccoli, più uguali e più protetti. Sembrano essere finiti nel dimenticatoio, quando non esplicitamente avversati, derisi e insultati i valori della civiltà. La cura del prossimo, l'ascolto e l'accoglienza. Ciascuno, che sia uno Stato, una famiglia o un singolo individuo, si sente minacciato da ciò che lo circonda e cerca di difendersi. Mentre al di là (ma anche al di dentro) dei nostri confini è avvenuto questo rovesciamento di ideali, in Italia abbiamo assistito a un susseguirsi di terremoti, negli ultimi dieci anni, che hanno lasciato cicatrici dolorose o ferite ancora aperte e sanguinanti. Macerie, rovine, uomini e donne diroccati come le loro vecchie case. È in mezzo a questa desolazione che un uomo ha avvertito quale può essere il messaggio della rinascita. Quell'uomo è Paolo Rumiz. Nato a Trieste nel 1947, una carriera da giornalista iniziata sulle colonne del quotidiano della sua città, il Piccolo, e proseguita da editorialista de La Repubblica. Da metà degli anni Ottanta è stato inviato all'estero, dai Balcani al Medio Oriente. Ha affiancato alla sua attività pubblicistica quella di autore di reportage sui suoi viaggi, diventati altrettanti libri. Che gli hanno fatto vincere numerosi premi, sia giornalistici sia letterari. Il suo ultimo libro “Il filo infinito”, edito da Feltrinelli, è una storia di speranza che prende avvio in terra d'Appennino. Dove l'autore s'imbatte nella statua del patrono d'Europa, san Benedetto da Norcia. Rumiz descrive così la dorsale appenninica, lunga crosta montuosa al centro dell'Italia, del Continente e di tutto il Mediterraneo popolata da monasteri benedettini: “In nessun luogo la percezione della Cristianità coincide in modo così perfetto con la topografia e la geografia”. Da lì, in un'Europa distrutta e dilaniata dalle invasioni barbariche, nel VI secolo dopo Cristo un gruppo di uomini ha cominciato a ricostruire la civiltà edificando monasteri, pregando, lavorando e accogliendo i viaggiatori, gli ospiti, gli stranieri, gli invasori. Per il giornalista-scrittore, la crisi dell'Europa è dovuta al fatto che “ignora le proprie radici. Dimentica di essere la terra delle regole, la terra di Benedetto”. Ha quindi smesso di costruire e di accogliere, mentre il senso del sacro si è andato sempre di più diluendo. Dell'urgenza di una resurrezione dell'Europa e del suo viaggio in tanti monasteri benedettini, dalla Lombardia fino all'Ungheria governata da Viktor Orbán, ma non solo, Rumiz ha parlato ad Assisi sabato 21 settembre, nell'ambito del “Cortile di Francesco” dedicato al tema “In_Contro”. Nella sala “Dono Doni” del Sacro convento ha proferito parole che suonano come un monito e come una preghiera: “Si può ricostruire il nostro legame con il sacro, con l'invisibile della nostra vita rifacendoci a questi uomini che 'oravano et laboravano'”. In Terris lo ha intervistato prima del suo intervento “Incontri per le strade d'Europa”.

Da dov'è nata l'idea di questo viaggio e poi di questo libro, “Il filo infinito”?
Ho incontrato per puro caso il santo, non me ne ero mai occupato prima. È stata la casualità di questo incontro a farmi capire che c'era di mezzo un po' il destino. Il santo si era messo sulla mia strada, così ho seguito questo segnale”.

Nel libro fa molti riferimenti alle regole dei monasteri benedettini e alla norma di Bendetto, la nota “ora et labora et noli contristari in laetitia pacis” (prega, lavora e non ti intristire nella gioia della pace – ndr). Di questi elementi del mondo benedettino c'è qualcosa che si ritrova nell'idea di Europa unita?
Vedo un'organizzazione che ha un centro relativamente debole e vive dell'identità dei luoghi che sono stati trasformati in presidi di fede e lavoro. I monasteri che ho visitato sono molto diversi gli uni dagli altri, esprimono tutti lo spirito del luogo. E sono molto distanti da un'idea di potere centrale. Anzi, considerano il centralismo come demoniaco. Una perfetta lezione di quello che l'Europa dovrebbe essere, pur auspicando tutti che abbia una regia unica”.

Quale Europa vorrebbe lei?
Vorrei un'Europa che sia capace di narrare la sua unicità, la sua diversità, la sua leggenda, la sua mitologia. Un'Europa che riesca a far capire agli europei che sembrano essersene dimenticati quanto siamo fortunati a vivere qui, rispetto a tutti gli altri continenti del mondo in cui si vive una vita infinitamente più infelice. Ho conosciuto da poco dei brasiliani, a Milano, che hanno avuto un problema sanitario urgente e sono stati sconvolti dal fatto che si potesse uscire la sera senza il bisogno di guardie giurate e dall'idea che si potesse essere curati senza bisogno di sborsare cifre spaventose. Questa è l'Europa e noi ce ne siamo dimenticati”.

L'Europa ha una storia molto antica, che affonda in delle radici. Nel libro lei cita quelle cristiane dell'Europa, una formula che negli ultimi quindici anni è stata strumentalizzata in politica con effetti divisivi. Lei come le intende?
Sono radici fondanti, importantissime. Ma non sono le uniche. Sono un laico con una forte tendenza anticlericale, ma anche io sono stato attratto dalla figura di san Francesco, e per me le radici cristiane significano il ritorno all'originalità del pensiero di Cristo”.

Nella sua visita all'abbazia di monache benedettine a Viboldone, nel milanese, ha riscontrato spiccate differenze con i monasteri maschili?
Non c'è una grande differenza. Al contrario, c'è una grande eguaglianza. I monasteri del mondo benedettino sono assolutamente equivalenti. La differenza è che la donna per carattere, per selezione naturale e per condizionamento del mondo che la circonda, è infinitamente più accogliente dell'uomo”.

Tutto parte da Norcia e dall'Appennino, una zona del nostro paese che negli ultimi anni è tornata spesso nei suoi scritti. Lo definisce la spina dorsale dell'Europa, perché?
Innanzitutto è la spina dorsale dell'Italia. L'Appenino è centrale. E con la nostra geografia peninsulare indica una proiezione verso l'Africa e l'Asia. Una posizione geografica che indica una vocazione, una tensione verso quelle aree dalle quali tutti noi geneticamente e storicamente proveniamo”.

Ci siamo dimenticati che proveniamo da altre parti del mondo e non siamo nati qui come delle piante. Perché?
Il popolo è inquieto perché non riceve risposte dalla classe politica. Questa, quando non ha risposte da dare, offre nemici e megafoni che fanno sì che oggi persone che sono il contrario del cristianesimo accogliente – e fino a ieri stavano zitte – oggi si sentono autorizzate a parlare, a strillare. Ma questo non mi spaventa, quello che mi spaventa è il silenzio degli altri”.

Nel suo libro invece riscopre il valore del silenzio. Qual è la differenza tra la vita monastica e quella metropolitana?
Nella vita metropolitana il sacro è stato completamente cancellato. Se oggi siamo di fronte al cambiamento climatico è perché una visione sacrale del mondo è stata liquidata, quindi non guardiamo più all'acqua e all'aria come meraviglie del Creato. All'interno dei monasteri si cerca di riprodurre ancora quest'atmosfera di sacralità. Finora non l'ho ancora vista qui ad Assisi. Mi sembra strano sentire della musica jazz e vedere che c'è un ordine del giorno in cui non si parla mai del sacro o che la Chiesa maggiore è attrezzata con un megaschermo. Per me tutto queste serve a smantellare il sacro, non a cercarlo. E non può esserci religione se non c'è prima il senso del sacro”.

Qual è il suo rapporto con Dio e con la fede?
Non cerco Dio. Sono interessatissimo a tutte le manifestazioni del sacro e insofferente a ogni religione che voglia incasellare l'uomo. Un monaco benedettino francese mi ha detto che basterebbe un po' di silenzio per sentire il fragore della nostra anima. Ma noi non siamo più in grado di sentire quello che ci abita. Siamo immersi dalla mattina alla sera in un eccesso di rumori. Musiche di sottofondo, un eccesso di notizie, di telegiornali…è difficile avere la possibilità di trovare una risposta”.

Nei suoi libri lei unisce musica e scrittura per raccontare l'Europa. Come le è venuta questa ispirazione?
Vado a tentoni alla ricerca di uno strumento narrativo capace di costruire un senso di fierezza e di appartenenza all'Europa che mi pare stiano venendo meno in nome di sciagurati particolarismi tipicamente italiani. Ho dei nipotini che mi fanno domande sull'Europa e io devo dare delle risposte chiare. Sotto forma di fiaba, di mito o di musica cerco di dare delle risposte che siano più efficaci di qualsiasi analisi economica, di qualsiasi ministro che venga a parlare delle prospettive della moneta e via dicendo. Abbiamo un urgente bisogno di una narrativa nuova”.