Sessant’anni di Concilio: ricordi da cronista nella Grande Avventura

Sono passati sessant’anni dal Concilio Vaticano II, un tempo enorme per una società che vive tutto in fretta e dimentica presto. Ma, proprio per questo, bisogna tornare all’11 ottobre del 1962. Bisogna ricordare che cosa significò quel giorno. Da allora sono già cresciute due, tre generazioni, che hanno visto quell’evento soltanto in tv, in un documentario o in qualche ricostruzione storica. E i giovani, soprattutto i giovani, sapranno poco o niente di quando la Chiesa cambiò profondamente il volto del cattolicesimo, il suo modo di pregare, di annunciare il Vangelo, di viverlo, di rapportarsi alle altre Comunità cristiane, alle altre religioni. E anche – come disse con una efficacissima battuta il cardinale Roger Etchegaray – di quando la Chiesa cominciò ad “abbassare i suoi ponti levatoi”, e quindi ad uscire dal suo secolare isolamento.

Ed ecco perché, conoscendo quella storia, sarà possibile farsi un giudizio più obiettivo sulla Chiesa di oggi. Senza nascondersi i gravi problemi che la attanagliano, la crisi che sta attraversando. Ma senza neanche dimenticare il cambiamento epocale che, grazie al Concilio, la Chiesa seppe operare. Avendo avuto l’umiltà e il coraggio di chiedere perdono per gli errori del passato, e di ripensarsi, di rinnovarsi.

L’11 ottobre del 1962 la Chiesa cattolica spalancò porte e finestre nel dare l’avvio a un nuovo Concilio. Il 21° Concilio ecumenico nella storia bimillenaria del cristianesimo. Il secondo – da qui il suo nome – a svolgersi in Vaticano. Dopo che il primo era stato forzatamente interrotto nel luglio del 1870 dalle cannonate italiane contro le mura di Porta Pia. Cominciava così la Grande Avventura, nata dall’intuizione e dall’audacia profetica di Giovanni XXIII. Ma, va anche detto, cominciava con un carico di difficoltà non indifferente: sia per le tante incognite che, come in ogni novità, gravavano sul suo futuro; sia, più ancora, per i settanta schemi sfornati dal lavoro preparatorio, e dov’era evidente l’impronta fortemente conservatrice della Curia romana. La stessa cerimonia di apertura, con la sua “sovrabbondanza” di fasto cerimoniale e di maestosità liturgica, sapeva non solo di antico, di barocco, ma – ed è quel che più colpiva – di un qualcosa di tenacemente ancorato a un passato che molti, troppi, nella gerarchia ecclesiastica, non volevano assolutamente toccare. Eppure, malgrado il Vaticano II fosse ancora tutto da scrivere, si avvertiva nell’aria una sensazione, anzi, di più, una voglia di nuovo, di diverso.

Era solo l’inizio, ma quell’inizio – a leggerlo in profondità, senza paraocchi – portava i primi segni di un cambiamento di “scenario” rispetto a com’era prima. E io, da cronista dell’Agenzia Ansa, ebbi l’enorme fortuna di vedere e raccontare tutto questo. Frenando a fatica l’emozione di vivere quel momento storico. Com’era già storia, visibilmente, la prima immagine di quell’11 ottobre. Dal Portone di Bronzo, e sbucando poi da sotto il colonnato, usciva un corteo che sembrava non finisse mai. I 2.500 vescovi procedevano lentamente, solennemente, verso il centro di piazza san Pietro. Le mitre tutte bianche, ma le facce anche nere, anche olivastre, e perfino gialle. Si capiva ch’erano vescovi autoctoni, nativi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia: e non più, come anche nell’ultimo Concilio, presuli europei ch’erano stati “esportati” nei territori di missione per presiederne la vita ecclesiale.