Vi racconto il sogno di Antonio Megalizzi

Al suono di parole come “Brexit” o “Euroscettici”, Antonio Megalizzi rimaneva sconcertato. Era il tempo degli sforzi faticosi di uscita del Regno Unito dall'Unione Europea compiuti dalla premier Theresa May, quando Antonio così scriveva: “Quando sento parlare di Brexit mi si gela il sangue. Forse è anche il neologismo in sé a non starmi simpatico: è un termine grigio, male assortito. Stona proprio con le nostre vite, le nostre esperienze. […]. Ho pensato ad un pezzo d'Europa che se ne andava, un po’ come se ad abbandonarmi fosse un arto del mio corpo, o un amico di vecchia data”. Queste ed altre note affollavano il suo profilo Instagram, elenco puro e senza retorica di un'idea d'Europa che il giovane giornalista portava dentro di sé. Antonio sarebbe stato bollato come “europeista” e lui ne era fiero, perché a quel progetto di un'Europa unita e senza confini sovranisti ci credeva davvero, anche se questo significava prendere un autobus per raggiungere la sede di Europhonica, la radio europea dove aveva cominciato a seminare i suoi sogni e ne aveva raccolti altri, alquanto preziosi, da chi era venuto prima di lui. #Europeanbrotherood scriveva Antonio fra gli hashtag dei suoi post: “Fratellanza europea”, due parole essenziali che riflettono l'eco dell'articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Questa è l'idea d'Europa che animava il giornalista trentino, nonostante gli sia costata la vita nel cuore della città europea di Strasburgo. I sogni sono tali perché sconfinano il tempo: il sogno europeo di Antonio è lo stesso di Victor Hugo, che auspicava un'unità e fraternità europee nel 1894, lo stesso di tanti giovani e meno giovani di lui che continuano a vedere gli orizzonti trent'anni dopo la caduta del Muro di Berlino e la rivoluzione di velluto. “Un'Europa con meno confini e più giustizia, Antonio comprendeva che le difficoltà possono essere superate rilanciano il progetto dell'Europa dei diritti, dei cittadini e dei popoli, della convivenza, della lotta all'odio, della pace” aveva ricordato nel suo messaggio agli italiani di fine 2018 il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. È inevitabile che il pensiero di oggi vada al tragico attentato ai mercatini di Strasburgo di un anno fa, ma lambisce la consapevolezza che la lotta ai nazionalismi è possibili al di là di ogni minaccia, grazie alla tenacia delle generazioni di oggi e domani. 

Il sogno di Antonio

Per far sì che le idee e la passione di Megalizzi non siano cancellate dalle pallottole del terrorismo che il vicedirettore di AgiPaolo Borrometi, ha pubblicato il libro Il sogno di Antonio. Storia di un ragazzo europeo (Solferino): “Non è un libro su Antonio, ma per Antonio, perché Antonio è l'esempio più chiaro e limpido di una generazione di ragazzi che non ha vissuto le frontiere, una generazione libera di poter circolare nel nostro Continente. Antonio andava dal Belgio alla Francia come se fossero un unico territorio, senza vivere la differenza di Stato, come se appartenesse a un unico popolo europeo. Antonio era un ragazzo che amava i ponti e non pensava ai muri, neanche quelli di pensiero”.

Antonio è annoverato in quella che è riduttivamente chiamata “generazione Erasmus“. Secondo lei, quella generazione è ascoltata?
“Antonio apparteneva a quella generazione più avanti, non più Erasmus, che si sente cittadina dell'unico popolo europeo. Nei fatti, questi ragazzi non hanno vissuto quelle frontiere né fisiche né mentali. Per questo, spesso sono più avanti degli adulti che non comprendono come l'Europa possa essere una risorsa, invece che un problema”.

Antonio nasce dieci anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Oggi in Europa ci sono muri, anche se non fisici?
“Antonio era un ragazzo che aveva ben chiaro che l'Europa forse perfettibile e dovesse migliorarsi rispetto al progetto quasi incompiuto che ancora oggi viviamo. Antonio criticava alcune fake news che secondo lui erano fatte ad arte per screditare l'Europa da una certa politica a livello globale. Antonio era per la notizia vera, per il racconto vero e autentico, per affrontare i tanti temi che non funzionano a livello europeo, per abbattere quei muri di pensiero che ancora oggi ci sono in Europa”.

Quale Europa spera in futuro?
“Io spero che l'Europa possa parlare sempre più la lingua di Antonio e di Bartek, questi due ragazzi che si confrontavano sulle idee. Avevano delle visioni diverse del mondo, ma sposavano la massima di Voltaire: 'Non condivido la tua idea, ma morirò affinché tu possa esprimerla'. Loro si rendevano conto che c'era tanto da fare, ma lo volevano fare nella quotidianità. Spero che in futuro l'Europa possa avere un'unica voce, incarnando gli ideali che aveva Antonio.

Nel suo libro ci sono tanti scritti di Antonio. Cosa ci ha lasciato?
“Antonio Megalizzi ci ha lasciato il messaggio che lui non era il simbolo di alcuna meglio gioventù, ma semplicemente un ragazzo che non voleva rinviare a domani ciò che avrebbe potuto fare oggi. Noi tutti forse dovremmo sporcarci le mani per quella stessa Europa che era negli occhi di Antonio”.

L' “Act glocal” dei giovani europei

Nella sua presentazione online, Pietro Fochi si definisce “entusiasta cittadino italiano, europeo e del mondo”. Nella visione di Pietro, che ha di recente terminato il suo mandato di Giovane Delegato d'Italia alle Nazioni Unite, l'Europa non è un concetto in divenire. È il presente. Sicuramente Fochi potrebbe essere annoverato in quella giovane generazione che supera i confini, ma – com'egli stesso dice – il processo reale è un cambio di prospettiva delle cose. Oggi Fochi fa impresa sociale in Italia, viaggia continuamente, e si rivolge ai giovanissimi, consapevole che loro non rappresentino il futuro, ma il “qui ed ora”. Interris.it ha esplorato, con la sua guida, il fermento reale di una generazione che contribuisce al futuro delle proprie realtà locali grazie a un senso di appartenenza globale.

In una sua presentazione sul web, colpisce la frase  “Lavora tenacemente per creare un ponte tra i giovani e il resto della società a ogni livello”. Cosa significa?
“Per noi il ponte è prima di tutto il dialogo, poi però bisogna passare ad azioni concrete. Mi sento di appartenere a quei giovani che credono ancora in modo molto forte e disincantato nelle istituzioni come risposta a un benessere e a un futuro più sostenibili rispetto ai nostri nonni. In concreto, penso sia necessario un incontro fra la nostra generazione e tutti gli altri settori della società”.

A proposito di società, vede una differenza fra pubblico e privato. Come vi entra in relazione un giovane?
“Nella società civile, le attività di un giovane all'interno della propria comunità, che sia di nascita o scelta, portano avanti un ideale, dall'attivismo studentesco allo scoutismo. Nel settore privato, soprattutto il mondo delle imprese, vede alla nostra generazione semplicemente come forza-lavoro al ribasso e questo non è fattibile”.

Quale scelta ha fatto?
“Dopo un'esperienza negli Stati Uniti, sono tornato in Italia e, negli anni del liceo, mi sono messo a lavorare. Dopo aver lavorato nel settore privato, ho aperto un'impresa sociale, EDUACTIVE, un hub che organizza percorsi extra-curriculari di formazione all'internazionalismo destinati agli studenti delle scuole superiori. Abbiamo riscontrato che i due principali problemi dei giovanissimi che scelgono di fare percorsi di formazione in Italia sono un certo ritardo d'ingresso nel mondo del lavoro e la scarsa conoscenza delle opportunità di internazionalismo. Per questo, co-progettiamo percorsi piuttosto lunghi e intensi con le scuole. Finora ne hanno beneficiato circa 3.000 ragazzi nel nord-Italia e, al termine di questi percorsi, i ragazzi che noi selezioniamo possono scegliere di fare i nostri progetti all'estero. Allo stato attuale, ne abbiamo diversi collocati in diverse parti del mondo, come Usa e Cina”.

Quale difficoltà ha riscontrato maggiormente?
“Senz'altro la mancata consapevolezza di inserire l'internazionalismo all'interno del proprio percorso. Per la maggioranza dei giovani, andare all'estero è o un'opportunità data dalla famiglia o una disperata ricerca di migliorare le proprie condizioni. Noi di EDUACTIVE riteniamo che le opportunità che abbiamo avuto nel nostro percorso siano condivise con i giovanissimi”.

Secondo lei, nell'opinione pubblica italiana c'è tanto da fare per sensibilizzare sull'internazionalismo?
“Senza dubbio c'è tanto da fare, ma penso che la narrativa dei giovani come futuro sia vecchia. Le nuove generazioni sono il presente e vanno trattate come tali. Non si deve, dunque, parlare di inclusione, ma di engagement, cioè dare subito alle nuove generazioni strumenti concreti per poter costruire il futuro. Non si tratta di 'aggiungere un posto' ai tavoli decisionali, ma bisogna ricostruirli da capo, con una nuova impostazione”.

In che senso?
“Quando sono stato giovane delegato delle Nazioni Unite, per la prima volta in Italia mi sono espresso a nome del governo. Ci siamo presi la possibilità di negoziare a titolo governativo con la nostra voce. Questo è un esempio efficace di engagement. Uno schema del genere andrebbe riprodotto a qualunque livello, dal quartiere alla città metropolitana, alla provincia. Senza queste opportunità, è difficile sviluppare un senso civico. Il migliorare il proprio contesto, prima ancora di cercarsi contesti migliori altrove fa parte anche dell'illusione dell'essere giovani”.

Perché ha, comunque, scelto di fare impresa in Italia?
“La prima ragione è il senso di appartenenza alla comunità e al sistema Paese. Ho vissuto in altri contesti, come quello statunitense, ma mi sono convinto quando ho visto che, ai più alti livelli, il nostro Paese goda di grande rispetto e attenzione. Dall'esterno la percezione cambia rispetto a una visione interna. Se in questo momento, la comunità internazionale traballa a livello decisionale e politico, va riconosciuto che esiste anche una comunità globale fatta di persone. Sono nato europeo e nulla mi toglierà questo. Rispetto alla generazione che oggi decide, e che è nata in un processo di formazione dell'Europa, per me si tratta di un habitat. Lavorare in Italia o in Belgio per me non fa differenza nel mio senso di appartenenza”.

In che senso?
“Questo approccio, che ho sperimentato in prima persona, mi ha portato a vedere quelle comunità locali estremamente virtuose nel nostro sistema Paese. Lavorando con centinaia di giovanissimi poco distanti anagraficamente da me, e vedendo il desiderio, la forza creativa, la voglia di apportare un cambiamento nelle piccole realtà, ho pensato che lì potessi dare il mio contributo progettuale e qui è giusto che lo porti avanti”.

Quando ha sentito un senso di appartenenza globale?
“All'interno di un percorso di Erasmus Plus, anni fa partecipai a un'attività che riuniva i partecipanti dall'Europa allargata sulla definizione della propria identità a livello europeo del proprio percorso. Il respiro ampio dei temi affrontati e la conoscenza con coetanei di Paesi in via di sviluppo mi colpirono particolarmente: la consapevolezza che i miei coetanei da tali Paesi avevano del loro percorso di inserimento in una comunità globale mi hanno segnato positivamente. Da lì mi sono accorto come la prospettiva e il privilegio di appartenere all'Unione Europea mi dessero una visione diversa del presente”.


Pietro Fochi e Fiorella Spizzuoco, che fino al 17 settembre hanno ricoperto il mandato di Youth Delegates d'Italia alle Nazioni Unite – Foto © SIOI via Facebook