“Il divieto assoluto di aiuto al suicidio lede la libertà”

L'ordinamento italiano punisce l'aiuto al suicidio con l'art. 580 del codice penale. Oggi si apprende che, secondo i giudici della Consulta, quel passaggio andrebbe modificato. Lo si legge nell'ordinanza depositata oggi con cui è stata rinviata al 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di costituzionalità dell'articolo in questione, sollevate dalla Corte d'assise di Milano nell'ambito della vicenda sul suicidio assistito di Dj Fabo, che vede imputato Marco Cappato.

Le motivazioni

Si legge: “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un'unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.

L'appello al Parlamento

La Consulta ora si rivolge al Parlamento, definendo “doveroso” consentire alle Camere ogni opportuna riflessione e iniziativa, “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, quando “la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l'incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere”. L'obiettivo, spiega la Corte, è quello di “evitare che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch'essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale”. Così si spiega la decisione di rimandare la decisione sul caso Dj Fabo-Cappato al prossimo anno, per consentire al Parlamento di fare una legge “che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela”.

Cappato: “Accolta la nostra linea”

Marco Cappato, l'esponente radicale imputato, si esprime con soddisfazione. “La Corte Costituzionale ha chiarito ciò che abbiamo sempre sostenuto, cioè che, in determinati casi, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato. E' così stata esplicitamente rigettata la linea sia del Governo Gentiloni che del Governo Conte. Spetterà ora al Parlamento intervenire”.

Gandolfini: “Il Parlamento ribadisca la condizione attuale”

Di tutt'altro tono il commento di Massimo Gandolfini, leader del Family Day. “Purtroppo l’ordinanza della Corte Costituzionale non fa che affermare un principio che non condividiamo e non potremo mai condividere: la disponibilità della vita umana, alla stregua di un bene patrimoniale. Dobbiamo affermare che il bene vita è fondante ogni altro bene, diritto e valore e, in quanto tale, disporre della vita a piacimento è come disporre di ogni altro diritto, considerato di per sé, non negoziabile”, afferma. “Non possiamo neppure completamente condividere l’impostazione pragmatica contenuta nell’ordinanza, per la quale ottanta anni fa c’erano condizioni assai diverse rispetto ad oggi in tema di tutela della vita e, quindi, va aggiornata anche la legge. La vita era, è e rimane valore assoluto che non conosce tempo e difenderla – senza accanimenti illeciti – è un dovere morale. Oltretutto bisogna considerare che solo 10 mesi fa veniva approvata la legge sulle cosiddette Dat, che introducono l’eutanasia passiva con la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Un’ulteriore azione legislativa sarebbe quindi tesa unicamente a depenalizzare il suicidio assistito”, prosegue Gandolfini. Il neurochirurgo bresciano fa dunque appello al Parlamento “perché ribadisca la condizione attuale, non lasciando spazio né pratico né culturale affinché non passi anche l’idea che ci sono condizioni per le quali la vita può essere violata. Lavoreremo in questa direzione in collaborazione con chiunque pensi che di fronte ad aspetti che riteniamo comunque pericolosi e dannosi, si ha il dovere morale di trovare strade concrete perché si affermi il principio etico del “maggior bene possibile”.