Quando lo sport sfida il potere

Era il 1964 quando Gianni Morandi cantava “In ginocchio da te”. Fu un successo. Ci si inginocchia per tanti motivi. Davanti a una donna per chiederle la mano o il perdono, ci si inginocchia davanti a Dio per una preghiera, ma non ci si era mai inginocchiati per protesta. Lo ha fatto lo sport americano, non come gesto di riverenza, ma un guanto di sfida lanciato a Donald Trump, l’uomo che sta dividendo l’America, anzi, la sta unendo, in particolare quella sportiva. Trump si è fatto più nemici dal momento in cui  è entrato alla Casa Bianca che in tutta la sua vita da tycoon. Ha nemici ovunque nel movimento dello sport a stelle e strisce. Ha cominciato il basket, poi il baseball ed infine il football americano, senza dimenticare alcune stelle della musica, a cominciare da Steve Wonder, tutti uniti contro l’uomo che ha provato a metterli in riga. La storia è ormai nota e prende il là dalle dichiarazioni del Presidente che ha invitato tutte le società a licenziare quegli atleti che si inginocchiavano durante l’esecuzione dell’inno nazionale. E il monito ai tifosi di uscire dallo stadio qualora si verificassero situazioni del genere. Chiamale se vuoi opinioni, ma di chiaro stampo razzista. Che il mondo dello sport non ha perdonato. E il nuovo motto adesso è “licenziateci tutti“.

Braccio di ferro

E se è vero che l’unione fa la forza, l’unione c’è stata ed ha abbracciato Nba, Nfl, Mlb, ovvero le leghe professionistiche di basket, football americano e baseball, con personaggi di spicco mondiale in prima linea, come Kobe Bryant e Lebron James. Rabbia e divisione, che ha unito tutti i maggior club e atleti americani, in un’unica battaglia contro l’uomo che vorrebbe cambiare l’America. Ma, invertendo i fattori, il prodotto stavolta cambia, eccome, perché a dover cambiare è proprio il Presidente, il titolare della Casa Bianca, che giorno dopo giorno perde consensi nelle quotazioni di un popolo che solo a metà lo ama e lo ha votato ma che adesso è pronto a voltargli le spalle. E allora, eccoli tutti… in ginocchio, in una protesta globale che ha fatto il giro del mondo e che ha abbattuto confini e muri, quegli stessi che Trump vuole erigere per separare il suo Paese dal Messico, che vorrebbe alzare per alimentare l’odio razzista e in alcuni casi anche sessista. Perché Trump è tutto, un vulcano pronto ad esplodere rabbia da un momento all’altro. Mai un presidente americano (e prima di lui ce ne sono stati 44) aveva avuto un atteggiamento di questo genere. Proteste che si allargano a macchia d’olio, oltre gli stessi confini dello sport che è quello preso di mira, visto che anche il celebre Steve Wonder, uno dei cantautori più popolari al mondo, ha sposato la causa degli sportivi e durante il suo ultimo concerto a New York si è anch’egli inginocchiato per protesta e per portare solidarietà alle stelle (offese) dello sport americano.

Le gesta di Owens

Ma la storia dello sport è piena di atleti che hanno sfidato il potere. Prendete Jesse Owens, il ragazzino di colore che riuscì a far infuriare persino Hitler. Olimpiadi del 1936 a Berlino, l’occasione, secondo il Fuhrer, di farsi pubblicità grazie ai Giochi. Una casa di risonanza mondiale, confermata dal fatto che la Germania portò a casa la bellezza di 89 medaglie. Ma non aveva fatto i conti con quel ragazzino afroamericano, pelle nera, che si prese beffa di tutti conquistando ben 4 medaglie d’oro. Un nero in trionfo nel tempi del nazismo, inaccettabile. La storia racconta che Hitler davanti a quel trionfo inatteso, lasciò anzitempo la tribuna dello stadio Olimpico, ma c’è un’altra verità, raccontata dallo stesso Owens, con una stretta di mano in privato e una foto fatta però ben presto sparire. La vittoria di un “nero” sul male, quello di un uomo, il capo nazista, che voleva cambiare il mondo, ma che dal “nero” ha avuto solo una grande lezione di vita.

La protesta di Messico 68

Un’altra data rimasta nella storia dei Giochi è quello dell’ottobre del ’68 in Messico durante la premiazione dei 200 metri maschili. Vittoria all’americano Tommie Smith davanti all’australiano Peter Norman, terzo l’altro americano John Carlos. Sul podio l’imponderabile, con i due afroamericani che all’inno abbassarono il capo e alzarono il pugno con un guanto nero, con lo stesso australiano che aderì indossando il distintivo del Progetto Olimpico sui Diritti Umani. Fu il più grande gesto di protesta mai avvenuto durante i Giochi Olimpici, un messaggio fin troppo chiaro da mandare al mondo per ricordare la situazione in cui vivevano i neri in America. Il pubblico non gradì e fischiò il gesto e i due atleti vennero immediatamente espulsi.

La ribellione di Cassius Clay

Discriminazioni razziali contro le quali si impegnò Cassius Clay, il più grande nella storia del pugilato, che combattè, oltre che sul ring, per vincere il razzismo di cui erano vittime gli afroamericani. Clay divenne Muhammad Alì e la sua battaglia fece il giro del mondo. Lo mandarono per ritorsione a combattere in Vietnam, ma lui rimase forte e fedele al suo credo. I suoi nemici non erano i vietnamiti, ma i bianchi del suo Paese, e disertò. Fu condannato a cinque anni di carcere. Il tempo e le varie rivoluzioni culturali, cancellarono tutto, ma non la rabbia di un uomo che in quei sette anni dovette rinunciare agli anni più belli durante i quali avrebbe potuto conquistare altri mondiali e continuare ad incantare il mondo. Ma la sua battaglia l’ha vinta col tempo, come lo stanno vincendo le stelle dell’attuale sport americano. Tutti uniti contro Donald Trump che forse, è proprio vero, gli atleti, stanno facendo… a stelle e strisce.