Pescante: “PyeongChang, un risultato dello spirito olimpico”

Con l'approssimarsi del mese di febbraio, è ufficialmente iniziato il conto alla rovescia per i Giochi olimpici invernali di PyeongChang, in Corea del Sud. Un evento sportivo sul quale è stato detto molto, colorando il percorso di avvicinamento di fosche tinte politiche legate ai rapporti fra Seul e i vicini del Nord ma, ancor di più, agli attriti fra il regime di Pyongyang e il mondo occidentale. Una frattura che gli sforzi diplomatici, intrapresi forse in modo non del tutto corretto, hanno mancato di sanare, rischiando addirittura di compromettere il sereno svolgimento di una kermesse che, di per sé, dovrebbe vedersi garantito uno stato di superpartes, come momento di condivisione e rivalità reciproca esclusivamente sul piano sportivo. Ma, dove la politica ha fallito, è stato proprio lo sforzo del mondo dello sport a ricomporre il quadro olimpico, tracciando un sentiero indipendente che, più di qualsiasi atto di “ostilità diplomatica”, è riuscito a far breccia nel muro della divisione culturale e a garantire la partecipazione di una delegazione nordcoreana alle Olimpiadi. Un successo dello spirito olimpico, rigenerato dall'impegno di chi, nello sport, vede un mezzo non solo di amicizia ma anche di pace: “Il mondo olimpico esulta – ha spiegato a In Terris Mario Pescante, rappresentate dell'Italia al Comitato internazionale olimpico -: questo risultato rimette in discussione tante critiche su un olimpismo che non esiste più. E’ il riscatto dello sport. E non ci siamo arrivati all’improvviso, perché lo sport è quotidianità, sacrificio perpetuo: è lì che è nata la strada”.

La tregua olimpica

Parlare di “tregua olimpica” comporta, senza dubbio, un viaggio imprescindibile nei meandri della storia, dove è necessario scendere per conoscere quanto e come lo spirito delle Olimpiadi, al netto di una plurisecolare sospensione, abbia viaggiato indenne attraverso il tempo: “Con le Olimpiadi nasce un atto politico, di pace, durato lo spazio di undici secoli… Ed è sempre un atto politico che ne chiude anche l'esistenza”. Il riferimento è alla strage di Tessalonica, avvenuta nel 390 d.C. la quale, su pressione del vescovo di Milano, Ambrogio, spinse l'imperatore Teodosio a decretare la sospensione delle Olimpiadi. “Un esempio, questo, che spiega come l'olimpismo sia sempre stato contrariato dalla politica e come la tregua fosse servita, in passato, per mettere fine a tutto questo”. Da sfatare la credenza che vuole, in epoca moderna, un Pierre De Coubertin ripristinare il concetto di 'tregua': “Lui ha ripristinato i Giochi e la stessa organizzazione della prima edizione delle Olimpiadi moderne, disputate ad Atene, fu frutto di un atto politico”.

L'epoca dei boicottaggi

L'excursus temporale dell'ex presidente del Coni ci porta a toccare tappe fondamentali della storia olimpica, intrecciate con gli scenari politici che, man mano, si sono succeduti fino al nuovo millennio: dal “red scare” statunitense, che favorì il boicottaggio dell'Olimpiade di Mosca nel 1980, alla replica sovietica dell'84 a Los Angeles. Giochi “mutilati”, palcoscenico sottratto allo spirito di competizione amichevole in nome di rancori sociali totalmente estranei al contesto: “A salvare le Olimpiadi sovietiche furono i Comitati olimpici, con in testa l'Italia: il governo proibì alla squadra di andare ma andammo lo stesso, senza bandiera, senza atleti militari, come Coni. E altri Paesi seguirono l’esempio”. Una mutilazione frutto di pretesti alieni allo sport ma che, nelle Olimpiadi, hanno trovato terreno di interferenza: “A Pechino, nel 2008, fu colta l'occasione per protestare contro l'occupazione del Tibet, dimenticata il giorno dopo; a Sochi, nel 2014, di pretesti per il boicottaggio, nonostante la fine dell'epoca comunista, se ne cercarono vari: quello giusto fu offerto dall'invasione della Crimea. A salvare i Giochi invernali furono gli atleti”.

Il nodo coreano

Precedenti senza dubbio importanti che, in un certo senso, rappresentano un percorso di avvicinamento all'appuntamento di PyeongChang, attorniato dal contesto della crisi coreana: “In questo caso la strategia adottata è stata diversa: una sorta di boicottaggio mascherato, allestendo un discorso del tipo: 'Lasciamo gli atleti liberi di partecipare ma quello è un posto molto pericoloso'. A questo punto, lo sport decide di mettere da parte la diplomazia e la politica, non approdate a nulla, e di fare da solo, con il sostegno dell’Onu, di Ban Ki Moon e del presidente sudcoreano, Moon. Mi piace sottolineare il fatto che l'attuale leader di Seul è stato eletto dai giovani, i quali gli hanno dato fiducia perché autore di un programma di dialogo. Moon è stato l'elemento chiave nell'ottica di una ripartizione di compiti: Ban Ki Moon, anche se non più come segretario dell’Onu, ha lavorato a una risoluzione sulla tregua olimpica; Moon si è incaricato dei rapporti con la Corea del Nord, in silenzio, senza incarichi precisi; poi c’è stato l'intervento del Cio, che ha costituito una sorta di gruppo di lavoro composto da coloro che avevano rapporti con la Corea. Io avevo contatti in quanto, per tre anni, l'Italia ha ospitato a Coverciano la nazionale giovanile della Nord Corea”. Un comitato, dunque, composto non da ambasciatori ma da personalità legate al mondo dell sport “interessate a salvare il loro patrimonio” e costituito da tutti i Paesi che ospiteranno le prossime edizioni delle Olimpiadi.

Un mondo diverso

“La mia modesta esperienza in Corea del Nord – ha spiegato ancora Pescante – mi ha permesso di scoprire davvero un altro pianeta: è un Paese diverso e difficile, nel quale il serivizio militare dura 7 anni, non si usano medicine chimiche e non si mangia carne. Perché questo popolo non si ribella a Kim? Bisogna rientrare nell'ottica della cultura orientale: gli imperatori, storicamente, sono sempre stati considerati divinità e per Kim vale lo stesso discorso. Non è un Paese di sentimenti, è un mondo senza televisioni, senza internet, senza giornali… vivono di questa cultura della divinità, isolati da tutto il resto del mondo”. Un concetto tenuto in debita considerazione durante i lavori del comitato assieme a un altro aspetto: “Uno dei due monumenti che ho avuto modo di vedere in Corea era un'enorme targa, nella quale era riportato un numero: 1.750.000. Era il numero delle bombe lanciate dagli americani durante la guerra del ’50 su tre città, secondo quanto si dice lì, una bomba per ogni abitante. Ciò che è rimasto, dunque, è odio e paura nei confronti degli americani: loro vivono di questi ricordi e l'atteggiamento adottato dall'amministrazione Usa, ossia il rispondere con gli stessi toni, ha paradossalmente rafforzato il potere di Kim sulla sua gente”.

Spiragli di dialogo

Appurato come la strada politica non fosse quella ideale per giungere alla soluzione in vista dei Giochi di febbraio, lo sport ha deciso di mettere in atto la propria offensiva: “All’Onu, Ban Ki Moon ritocca la risoluzione in un punto fondamentale: la tregua la chiede il Paese organizzatore a nome non della Corea del Sud ma della penisola coreana. Questa è stata una svolta alla quale noi, come comitato, dovevamo assicurare l’unanimità: va da sé che una tregua olimpica semplicemente a maggioranza non serve a nulla”. Nel momento in cui Kim apre alla possibilità di partecipazione dei suoi atleti, viene fissata l'ormai famosa data del 9 gennaio, con appuntamento a Panmunjom: “All'incontro erano presenti anche il ministro dell’unificazione sudcoreano e quello della pace della Nord Corea: erano lì non per controllare ma per dare un futuro a questi dialoghi. Può darsi che dopo PyeongChang non cambierà niente, ma quantomeno ci stanno provando”.

Lezioni sportive

L'ostilità politica, mascherata dai tentativi di dialogo diplomatico è, secondo Pescante, una strategia ben più rischiosa: “Questa vicenda ci insegna molte lezioni: vorrei invitare coloro che parlavano di un olimpismo morto a riflettere; così come vorrei ribadire che le olimpiadi non sono il palcoscenico ideale per manifestare i propri rancori. Ovviamente, garanzie di successo definitivo non ci sono: speriamo di non avere brutte sorprese ma i sentori sono positivi: alla fine di questa storia non c'è un 'vissero felici e contenti' ma, perlomeno, la consapevolezza di aver raggiunto un risultato storico che inorgoglisce il mondo dello sport”. Al villaggio di pace c’è stato un primo incontro: a PyeongChang ce ne sarà un altro, dove le due Coree si troveranno l'una di fronte all'altra non da nemiche ma da abitanti di un'unica regione geografica. Forse il primo vero passo, la prima tessera di un mosaico ancora tutto in divenire. Di certezze, al momento, non ve ne sono: solo la stipula di un accordo di tregua, costruito dalle battaglie del mondo dello sport. Una via che, oggi come in passato, potrebbe contribuire a edificare percorsi diversi, una diplomazia nuova, costruita su interessi comuni.