Carlo Molfetta, oro olimpico nel Taekwondo: “L’importante è perdere”

Anche se al destino non crede, il campione olimpico di taekwondo Carlo Molfetta il suo destino lo scriveva sin dai tempi in cui era un ragazzino che giocava per le strade bigie di Mesagne, quando – confessa – autografava sui fogli dei compagni di scuola promettendo loro la vittoria olimpica. Un mantra scribacchiato, una dichiarazione nero su bianco di un’ambizione, certo, ma anche di un riscatto iniziato in un borgo di 26.000 anime nel brindisino e delineatosi fra le grandi città olimpiche: Atene – mentre Pechino vola per un soffio -, infine Londra, la città dove Molfetta l’oro lo ha vinto per davvero: e così l’11 agosto 2012, lui, fra i meno favoriti nella categoria + 80 Kg, è riuscito a battere con tutto se stesso Anthony Obame, del Gabon: il suo urlo in ginocchio ha, così, offuscato l’amara lezione impartitagli da un passato costellato di infortuni che, come tanti scogli, hanno incagliato la sua nave che procedeva spedita. Come ha confessato a In Terris, per Carlo Molfetta, però, le Olimpiadi di Atene e i match precedenti hanno rappresentato, con le loro sconfitte, una miccia ideale per far maturare la spacconeria adolescenziale in un atteggiamento reale di rivalsa. Nel 2016, con somma sorpresa di molti, decide di ritirarsi dall’agonismo: lascia, così, la sua impronta l’uomo che ha fatto del taekwondo uno sport genuinamente italiano. Oggi, accanto al ruolo dirigenziale di Team Manager della Nazionale italiana, Carlo ha scelto di condividere la sua esperienza con i giovani atlteti. Chissà in quanti volti ha ritrovato un po’ di quel bambino nato 35 anni fa a Mesagne, la scimmietta come soleva chiamarlo la madre stufa dei danni che faceva da piccolo in casa. Oro al collo, Carlo Molfetta oggi si divide tra lavoro e famiglia: la più bella lezione che la vita, non il destino, ha saputo impartirgli.

Carlo, hai iniziato a praticare il taekwondo dall’età di cinque anni. C’è qualcosa di quel Molfetta bambino che ancora ti caratterizza?
“Sono un sognatore dalla nascita. Quando avevo dodici anni, firmavo autografi ai miei compagni di classe dicendo che avrei vinto le Olimpiadi. Il mio sogno non è illusione, ma coincide con l’ambizione, cioè la voglia di raggiungere traguardi. Questo è ciò che mi porto dall’infanzia, perché ancora continuo a sognare”.

Quanto è stata importante la tua famiglia nella crescita come atleta e come persona?
“Direi che è stata fondamentale. Con il tempo, mi sono fatto una nuova famiglia, ma i miei affetti più cari restano sempre. Anche il legame con la mia città natale, Mesagne, è molto forte. Anche se la mia vita s’è completamente spostata a Roma, non potrei mai rinnegare le mie origini”.

Ti sei emozionato più quando hai vinto l’oro a Londra 2012 o quando è nata tua figlia Rachele?
“Si tratta di emozioni completamente diverse. La realizzazione della parte lavorativa è un traguardo. Il matrimonio e la famiglia, invece, sono una realizzazione di vita. I traguardi nel lavoro e nella vita differiscono ed hanno un peso diverso e peculiare”.


Carlo Molfetta con la bandiera italiana subito dopo la finale a Londra 2012 – Foto © Daniele Badolato per LaPresse

Si è conclusa da poco la 4° edizione del Carlo Molfetta Legacy Camp, a cui hanno partecipato un centinaio di ragazzi: che cosa insegni loro?
“Rispetto alla prima edizione, alla quale parteciparono circa 33 ragazzi, quest’anno abbiamo concluso il Camp con cento ragazzi, con un range di età che è andato dai cinque ai trentadue anni. Quello che ho cercato di trasmettere loro è stata la mia esperienza sportiva e anche di vita. Il Camp non è solo improntato sulla competizione, ma anche sulla creazione del gruppo: quest’anno, per esempio, siamo andati al mare, abbiamo ospitato campioni internazionali che hanno fornito la loro esperienza e il metodo di allenamento, infine, in una sorta di conferenza stampa, abbiamo risposto a tutte le domande che i ragazzini hanno fatto a noi campioni”.

Si può dire che nel Carlo Molfetta Legacy Camp metti quello che come TeamManager della Nazionale Italiana di Taekwondo non puoi fare, perché lì ti occupi di aspetti gestionali?
“Esattamente. Il corso si chiama appunto Legacy Camp perché metto a disposizione dei giovani atleti tutto quello che ho fatto io come atleta agonista. Nella Federazione Italiana di Taekwondo, invece, mi occupo della gestione dei team“.

Quando nel 2016 hai deciso di interrompere l’attività agonistica, hai dichiarato: “È tempo di trasferire la mia esperienza e la mia passione ai giovani”. Quale peso hanno questi due elementi nel taekwondo?
“Sono tutto. Inizialmente, c’è la voglia di fare, di dimostrare di essere capaci. Esaurita quella prima fase, il resto è tutta esperienza che uno accumula. Un’esperienza, sia chiaro, è fatta anche di errori, che vanno sminuiti il più possibile per far raggiungere i traguardi importanti. La passione, invece, ti guida dall’inizio alla fine, perché nel momento in cui non c’è passione, gli allenamenti, i risultati vanno a scemare e poi è inevitabile il ritiro”.

Alle Olimpiadi di Atene del 2004 partivi da favorito, eppure non hai centrato il podio. Che peso ha avuto la sconfitta nella tua esperienza agonistica?
“Mi piace dire che la sconfitta è più importante della vittoria, soprattutto se essa diventa parte della tua crescita personale. Se perdi e dai la colpa a fattori esterni, non crescerai. Ma se perdi e dai il giusto peso a quella sconfitta, cercando di capire quello che mancava, allora perdere diventa un punto di partenza per la gara successiva. Una sconfitta così greve come quella olimpica, ti dà un’esperienza enorme, grazie alla quale non ho ripetuto gli stessi errori. E così sono passato dall’essere stato il favorito ad Atene senza ottenere medaglie ad essere l’ultimo papabile per una vittoria a Londra ed aver conquistato l’oro”.

La sfida sul tatami può essere una metafora delle sfide della vita?
“Sul tatami le tue difficoltà sono i pregi dell’avversario e così è nella vita: se non riesci a trovare la soluzione giusta per uscire fuori da una difficoltà, vieni travolto dalla stessa, così come in un combattimento sei vulnerabile all’atleta avversario”.

I casi di doping nel taekwondo sono rari, eppure l’uso di sostanze illegali nello sport sono sintomo di una competitività lontana dai sani valori dello sport. Secondo te, l’agonismo sta prendendo una piega sbagliata?
“Secondo me, il doping c’è stato e ci sarà sempre, perché nella vita c’è chi vuole usare altri mezzi per riuscire a raggiungere degli obiettivi. Nello sport, chi si dopa cerca un escamotage che, però, allontana dal vero problema: evitare quella crescita umana che lo sport, invece, esige”.

Le scene della finale alle Olimpiadi di Londra 2012 sono impresse nella storia dello sport italiano: ci sei tu che cadi in ginocchio e parli al cielo. Posso chiederti che cosa hai detto in quel momento?
“Che ero riuscito a togliermi tutto il peso che avevo. Per me vincere l’Olimpiade era diventata più che un sogno un’ossessione, quindi m’ero liberato di quel peso che mi portavo sin da bambino di riuscire a salire sul gradino più alto del podio olimpico”

Leggendo la tua esperienza di sport, credi in Dio?
“Sono sempre stato credente e continuo ad esserlo. Sono convinto che esista un Dio che ci guarda, ma non penso ci manipoli nelle nostre scelte e influisca sulla nostra vita. Non credo, però, al destino prefissato: siamo noi i padroni della nostra vita. Ogni strada, ogni bivio ci porterà a una decisione diversa, come in una sorta di sliding door“.

Progetti futuri?
“C’è un libro biografico che andrà in pubblicazione l’estate prossima, a ridosso delle Olimpiadi Tokyo 2020”.