Addio a Manfredini, il Piedone argentino dal cuore romano

Per tutti fu Piedone, anche se di scarpe portava un numero normalissimo. Frutto di una foto, si dice, scattata dal basso verso l'alto quando scese la scaletta dell'aereo, che fece apparire il suo 43 ben più grande di quanto non fosse. Poco male però, visto che con quel soprannome Pedro Manfredini è passato alla storia: il bomber della Roma degli anni '60 si è spento oggi, lasciando di sé un'epopea che i vecchi tifosi romanisti ricordano ancora con affetto e gratitudine. Centravanti vecchia razza, argentino con origini italiane, un “oriundo” per dirla con un termine caro in quegli anni, legò il suo nome quasi indissolubilmente alla maglia giallorossa, che indossò ininterrottamente dal '59 al '65, conquistandosi il cuore del pubblico a suon di gol: 77 in totale nella sola Serie A. Un'icona per Roma, tanto da guadagnarsi una citazione ne I mostri di Dino Risi e, addirittura, nel film Premio Oscar Il segreto dei tuoi occhi.

 

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Gli anni di Piedone

Uomo di spogliatoio, avvezzo alle triplette (ben 9, 4 nella sola stagione 62-63), a Roma raccolse ben più che i successi calcistici della Coppa Italia del '64 e della Coppa delle Fiere del '61, competizione nella quale peraltro fissò il record (che resterà imbattuto) di 12 reti: nella Capitale Manfredini trova l'ambiente giusto per maturare sportivamente e per mettere radici, tornandovi al termine della sua carriera (dopo i giallorossi tenterà esperienze poco fortunate tra Inter, Brescia e Venezia) per aprirci un bar, il “Piedone”, a Piazzale Clodio, a due passi dallo Stadio Olimpico. Durerà qualche anno, poi si trasferirà a Spinaceto e ancora a Ostia, dove è vissuto fino a oggi. Con lui se ne va una delle figure che meglio incarnava il calcio degli anni '60, quello del “numero per ruolo”, del centravanti che segnava perché quello era il suo mestiere. Certo, attorno a lui orbitarono grandi giocatori, con partner come Selmosson, Angelillo, Ghiggia. Gente che segnava ma, soprattutto, che lo faceva segnare. A raffica nei primi tre anni: doppia cifra ampiamente considerata, con la terza stagione condita dal titolo di capocannoniere da spartire con Harald Nielsen. Meno fortunata l'esperienza in nazionale: tre sole presenze ma anche due reti e una Copa América in bacheca. Roba che riesce solo ai grandissimi.