Wojtyla, il talent scout di Dio

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Karol Wojtyla è passato alla storia come il Papa che ha contribuito in maniera determinante alla caduta del Muro di Berlino. La presentazione a Roma del libro Chi ha paura di Giovanni Paolo II, edito da Rubbettino, al quale sono intervenuti il cardinale Edoardo Menichelli, il sacerdote anti-tratta don Aldo Buonaiuto (che ha raccontato l'attenzione di Wojtyla per le vittime delle prostituzione coatta e per l'azione di liberazione dalla schiavitù della stratta svolta con don Oreste Benzi e i volontari della Comunità Giovanni XXIII), l'ex vicedirettore dell'Osservatore Romano Gianfranco Svidercoschi, il fondatore della comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi, l’ex europarlamentare Silvia Costa e l’ideatore delle Giornate mondiali della gioventù, Marcello Bedeschi è stato ricostruito il lato geopolitico e pastorale del quarto di secolo wojtyliano. In Terris ha sintetizzato alcuni dei contenuti più originali emersi dalla conferenza

Direttore d’orchesta

“Loro”. Anche dopo molti anni trascorsi sul Soglio di Pietro, Giovanni Paolo II era solito esprimersi cosi nei colloqui riservati quando si riferiva alla Curia vaticana: quasi un segno dell’alterità se non proprio della resistenza che per tutta la vita avverti nel governon centrale della Chiesa. Un merito che persino i suoi più irriducibili oppositori e critici hanno, seppur tardivamente, riconosciuto a Karol Wojtyla e stato quello di essere stato per vocazione naturale un talentuoso “direttore d’orchestra” in grado di scegliere per i posti chiave personalità tra loro diversissime ma tutte di grande caratura. Scelte tutt’altro che scontate come quella dell’insigne biblista ma non ancora presule Carlo Maria Martini per la guida dell’arcidiocesi di Milano, una delle più grandi del mondo, e poi anche degli episcopati europei o del diplomatico padre della Ostpolitik vaticana Agostino Casaroli come Segretario di Stato o, ancora, del semisconosciuto vescovo ausiliare Camillo Ruini alla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana e, soprattutto, del teologo tedesco Joseph Ratzinger per la fondamentale Congregazione per la Dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. In particolare la designazione nel 1981 del futuro Benedetto XVI per un incarico determinante nell’economia di un pontificato conferma la lungimiranza e il talento di Giovanni Paolo II nell’individuare personalità eccellenti malgrado la contrarietà dei circoli progressisti che consideravano il loro collega bavarese alla stregua di un “traditore” delle aperture conciliari alle quali aveva fattivamente collaborato come perito del Vaticano II. Se tra le indicazioni di governo di Karol Wojtyla la coraggiosa scelta di Joseph Ratzinger come custode della dottrina e emblematica della sua lungimirante contrarietà ad assecondare gli umori del momento, e a pontificato terminato e a pontificato terminato che si comprende nella sua interezza lo stile pastorale e il modello di leadership di Giovanni Paolo II. Il 16 ottobre 1978 fu un giorno incredibile, straordinario. Lo si capirà più tardi, ma era l’inizio di una nuova storia, e non soltanto per la Chiesa cattolica. Era stato eletto Papa l’arcivescovo di Cracovia. Un cardinale che arrivava da dietro la “cortina di ferro”, dall’impero sovietico, giacche il mondo era ancora diviso tra i due blocchi politico-militari. Poi sarebbe arrivato un Papa tedesco. E poi un Papa addirittura dal sud del mondo, argentino. Forse non si e ancora abbastanza riflettuto su questo, ma era il tramonto definitivo dell’eurocentrismo ecclesiale. Come dire che il cattolicesimo europeo non poteva più essere il solo a interpretare (o, almeno, a pretendere di interpretare) il logos cristiano. Di fatto, era cominciato il tempo in cui, sulla cattedra di Pietro, salivano pontefici che si portavano dietro le ricchezze spirituali delle proprie Chiese, le caratteristiche delle proprie regioni, la cultura dei propri popoli: aprendo cosi la Chiesa universale – come del resto aveva chiesto il Concilio Vaticano II – a una pluralità di carismi, di modi di vivere la fede, di esperienze pastorali e missionarie. Ed e inevitabile che questa novità, anche se ancora cosi frammentata e frammentaria, debba provocare malumori, polemiche, contrarietà, resistenze.

L'opzione Ratzinger

In particolare, la designazione, nel 1981, del futuro Benedetto XVI per un incarico determinante nell’economia di un pontificato conferma la lungimiranza e il talento di Giovanni Paolo II nell’individuare personalità eccellenti malgrado la contrarietà dei circoli progressisti che consideravano il loro collega bavarese alla stregua di un “traditore” delle aperture conciliari, alle quali aveva fattivamente collaborato come perito del Vaticano II. Per comprendere la rilevanza e il coraggio della decisione controcorrente di Karol Wojtyla occorre contestualizzarla nel clima politico-ecclesiale e culturale dell’epoca. Tra le indicazioni di governo di Karol Wojtyla, la coraggiosa scelta di Joseph Ratzinger come custode della dottrina è emblematica della sua lungimirante contrarietà ad assecondare gli umori del momento. E ciò malgrado malumori, polemiche, resistenze. Fin dal suo governo episcopale in Polonia, Karol Wojtyla aveva dimostrato il suo genio pastorale e organizzativo, ideando nella sua arcidiocesi tre uffici che poi, una volta divenuto Papa, diventarono dicasteri vaticani: laici, famiglie, operatori sanitari.  Alla capacità di valorizzare e comporre in proficua polifonia le diversità di personalità e sensibilità ecclesiali, corrispondeva la disponibilità a delegare e concedere spazi di manovra e libertà creativa nello svolgimento delle mansioni. Sembra una caratteristica da “top manager”, in realtà aveva un profondo radicamento di fede.  Durante il pontificato di Benedetto XVI, il 30 aprile 2011, sull’Osservatore Romano, uscì un editoriale non firmato: “La sorpresa più grande che Giovanni Paolo II ci lascia in eredità non è tanto la scoperta di un’intuizione di governo pastorale, lo stile personalissimo e mai solo protocollare nel ministero di successore di Pietro, quanto piuttosto la sua capacità di vivere il rapporto con Dio. Dal processo canonico sulla sua pratica eroica delle virtù cristiane e dal carattere miracoloso della guarigione dal morbo di Parkinson della religiosa attribuita alla sua intercessione emerge una voce comune: l’unione con Dio in tutta la vita di Karol Wojtyła era tanto normale da sembrare una sua seconda natura. Egli appare un’anima che ha cercato di adeguarsi alla santità di Dio, alla cui presenza ordinariamente respirava e agiva. Esprimendo una tensione verso l’alto cresciuta negli anni e divenuta impressionante nell’ultimo decennio di pontificato, quando la malattia inarrestabile ha progressivamente minato le sue forze fisiche”. Secondo il quotidiano della Santa Sede “mentre nel primo periodo del suo pontificato prevaleva l’ammirazione, una volta divenuto debole e fragile agli occhi del mondo, Giovanni Paolo II è diventato familiare ed è stato percepito da credenti e non credenti come un testimone credibile e umano del Vangelo, predicato senza sosta in tutto il mondo”. L’invito ad aprire le porte a Cristo senza paura, lanciato all’inizio del suo pontificato, è stato poi incarnato nella sofferenza. Affrontata con serena pazienza perché in compagnia di Cristo e insieme a milioni di uomini e donne accomunati da analoghi patimenti. “Le parole predicate apparivano verificate dalla sua testimonianza semplicemente cristiana”, chiosa l’Osservatore Romano. Nella massima debolezza fisica, mai nascosta, il successore di Pietro è apparso ancora più amato perché ancora più simile al Buon Pastore che dà la sua vita, e così incoraggia a vivere. Era diffusa la convinzione che il Papa capisse la quotidianità di quanti faticano a tirare avanti: tutta questa gente ai margini dei riflettori cercava di carpire il segreto della forza interiore che sprigionava da Giovanni Paolo II”.

La ragione di un pontificato

Dopo l’imposizione della berretta rossa, sul sagrato della basilica vaticana i nuovi cardinali si scambiavano il saluto tra loro e con gli altri porporati più anziani in un clima festoso, mentre Karol Wojtyła (era il suo ultimo concistoro nell’ottobre del 2003 e il Parkinson era ormai evidentissimo) guardava in silenzio, quasi con un occhio di congedo da questa vita. Sembrò d’improvviso come appartato in un’altra dimensione che, in quel momento lieto e importante, si rivelava essere un ritiro abituale del suo spirito. “Sempre presente a tutto e a tutti mentre la sua anima risiedeva altrove, in un rifugio interiore ove avveniva un colloquio ininterrotto con Dio” puntualizza il quotidiano della Santa Sede. “Lì era la fonte della sua amabilità, della sua energia, del coraggio pastorale. La necessità di riaprire nella Chiesa e nel tempo presente secolare e globalizzato l’interesse a Dio per tornare a edificare società libere e fraterne, ha abitato il suo insegnamento e costituito il segreto della sua vita quotidiana. È l’eredità lasciata da Giovanni Paolo II, questione moderna per eccellenza. Non a caso, il successore Benedetto XVI ne ha fatto la ragione stessa del suo pontificato”.  “I Papi contemporanei hanno sempre avuto forti opposizioni”, riconosce lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. “Paolo VI subì la contestazione di chi lo accusava di imbrigliare il Vaticano II, mentre l'opposizione conservatrice gli rimproverò aperture e cambiamenti, addirittura il tradimento della tradizione”, spiega Riccardi. “Anche il popolarissimo Giovanni Paolo II, specie all'inizio, fu criticato come portatore di un modello polacco di Chiesa. Ratzinger è stato attaccato (contraddittoriamente) per un governo definito debole e conservatore. Le voci critiche non sono mancate sia durante il pontificato di Karol Wojtyla sia dopo. Complesso penetrare nel mistero-Wojtyla, uomo di grande fede, di grande preghiera, un uomo semplice, puro, trasparente, interiormente libero, distaccato dalle cose del mondo”, evidenzia il professor Riccardi.  Un uomo segnato dalla santità ordinaria, vissuta nella quotidianità, e che, proprio per questo, faceva trasparire il volto umano di Dio.  Un uomo pieno dei doni della profezia, e che perciò sapeva andare controcorrente, aprire nuovi cammini. Senza paure. Senza complessi nei confronti della modernità, né delle ideologie dominanti. E infatti, Giovanni Paolo II non accettò mai le cosiddette “verità” che allora dominavano la storia, la cultura, la politica, l’economia, ma anche una certa intellighenzia ecclesiastica. Come, ad esempio, la presunta definitività della divisione in due del mondo e, in particolare, dell’Europa. “O il crescere del secolarismo, fintanto da cancellare dalla società ogni segno o presenza del sacro”, precisa il fondatore di Sant’Egidio. “Oppure il progressivo allontanamento delle nuove generazioni dalla Chiesa, la messa in soffitta dei documenti del Concilio, e il ritorno a un clericalismo difensivo e confortante, opposto a ogni cambiamento”. Ciò che si rimproverava a Wojtyla era in larga parte riconducibile a ciò che non gli era stato perdonato nella scelta di Ratzinger come custode dell’ortodossia.

La radice del dissenso

A pochi mesi dalla scomparsa di Giovanni Paolo II, nel gennaio 2006, fece molto discutere il durissimo attacco del teologo cattolico dissidente Hans Küng che indicò le undici contraddizioni che avrebbero segnato il quarto di secolo di Karol Wojtyla sul Soglio di Pietro.  E’ un lungo cahier de doléances e, quasi in ogni suo passaggio, all’origine del j’accuse scagliato contro il Papa polacco ci sono scelte teologiche riconducibili al suo custode tedesco dell’ortodossia. Un atto di accusa non arriva da un oppositore qualunque ma da un intellettuale che ha antiche e radicate frequentazioni con ambienti progressisti della Curia vaticana e degli episcopati nazionali soprattutto dell’Europa centro-settentrionale e delle Americhe. Il Papa polacco avrebbe secondo lui costretto milioni di credenti a una drammatica “crisi di speranza”. A Wojtyla, in buona sostanza, non viene perdonato di essersi affidato alla scuola teologica-Ratzinger e molto di ciò che viene rimproverato a Giovanni Paolo II è frutto di una elaborazione teorica e di una prassi di governo condivisa con il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e cioè con il suo più fidato e prestigioso collaboratore destinato a succerdergli sul Soglio di Pietro.  Wojtyla viene definito “il Papa che ha fallito” e cha “ha predicato il dialogo ma ha isolato la Chiesa”, come se le sue idee di fede e di morale avessero cancellato il Concilio Vaticano II. A giudizio di Küng, Giovanni Paolo II non è il Papa più grande ma il più contraddittorio del XX secolo, “un Papa dalle molte, grandi doti, e dalle molte decisioni sbagliate”. La sua politica estera “ha preteso da tutto il mondo conversione, riforma, dialogo”. Però, “in tutta contraddizione, la sua politica interna ha puntato alla restaurazione dello status quo ante Concilium, a impedire le riforme, al rifiuto del dialogo intra-ecclesiastico e al dominio assoluto di Roma”. Il teologo dissidente svizzero evidenzia questa “contraddizione” in undici ambiti problematici, pur riconoscendo i numerosi aspetti positivi del pontificato di Karol Wojtyla. “Giovanni Paolo II ha predicato i diritti degli uomini all’esterno ma li ha negati all’interno, cioè ai vescovi, ai teologi e soprattutto alle donne”, ritiene Küng. “Grande ammiratore di Maria, Wojtyla ha predicato gli ideali femminili, vietando però alle donne la pillola e negando loro l’ordinazione”, denuncia il teologo svizzero. “Per molte donne cattoliche tradizionali (soprattutto le donne appartenenti a ordini religiosi), l’aspetto più apprezzato di Karol Wojtyla è stato il suo respingere le donne moderne, in quanto le ha escluse da tutte le consacrazioni più importanti. Inoltre il Papa polacco“ha praticato un numero elevatissimo di canonizzazioni, ma al tempo stesso ha ignorato l’inquisizione attuata nei confronti di teologi, sacerdoti e membri di ordini malvisti dalla Chiesa”, sostiene Küng. “I devoti, strumentalizzati politicamente e commercialmente con spese ingenti e conseguenti profitti per la Curia, sono soprattutto pie suore, fondatori di ordini religiosi o Papi come l’antidemocratico, antisemita, autoritario Papa Pio IX (controbilanciati dalla canonizzazione di Giovanni XXIII). Devoti sono divenuti anche l’imperatore asburgico Carlo I e il ben poco pio fondatore dell’Opus Dei Josémaria Escrivá.  Uomini e donne (anche donne appartenenti a ordini religiosi) che si sono distinti, per il loro pensiero critico e per la loro energica volontà di riforme, sono stati invece trattati con metodi da Inquisizione”. Secondo Küng, “come Pio XII fece perseguitare i più importanti teologi del suo tempo, allo stesso modo si sono comportati Giovanni Paolo II e il suo Grande Inquisitore Joseph Ratzinger con Schillebeeckx, Balasuriya, Boff, Bulányi, Curran, Fox, Drewermann e anche il vescovo di Evreux Gaillot e l’arcivescovo di Seattle Huntington. Nella vita pubblica durante il pontificato di Wojtyla sono mancati intellettuali e teologi cattolici della levatura della generazione del Concilio. Questo è il risultato di un clima di sospetto, che ha circondato i pensatori critici del pontificato di Giovanni Paolo II. E così i vescovi si sentono governatori romani invece che servitori del popolo della Chiesa e troppi teologi scrivono in modo conformista oppure tacciono”. Wojtyla, inoltre, ha elogiato spesso e volentieri gli ecumenici, ma al tempo stesso ha pesantemente compromesso i rapporti con le Chiese ortodosse e con quelle riformiste e ha evitato il riconoscimento dei suoi funzionari e dell’eucarestia”, valuta Küng, secondo cui Giovanni Paolo II avrebbe dovuto consentire (come suggerito in molti modi dalle commissioni di studio ecumeniche e come praticato direttamente da tanti parroci) le messe e l’eucarestia nelle Chiese non cattoliche e l’ospitalità eucaristica. Avrebbe anche dovuto ridurre “l’eccessivo potere esercitato dalla Chiesa nei confronti delle Chiese dell’Est e delle Chiese riformiste” e avrebbe dovuto “rinunciare all’insediamento dei vescovi romano-cattolici nelle zone delle Chiese russe- ortodosse: avrebbe potuto, ma non ha mai voluto. Ha voluto invece mantenere e ampliare il sistema di potere romano. La politica di potere e di prestigio del Vaticano è stata mascherata da discorsi ecumenici pronunciati dalla finestra di Piazza San Pietro, da gesti vuoti e da una giovialità del Papa e dei suoi cardinali che cela in realtà il desiderio di sottomissione della Chiesa dell’Est sotto il primato romano e il ritorno dei protestanti alla casa paterna romano-cattolica”.

Il mancato cambio di rotta

Come vescovo suffraganeo e poi arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla ha preso parte al Concilio Vaticano II. La stessa assise nella quale Joseph Ratzinger iniziò a incidere in profondità nella teologia della chiesa universale. Una volta diventato Papa, “Wojtyla ha però disprezzato la collegialità del Pontefice con i vescovi decretata proprio al Concilio:  ha più volte dichiarato la sua fedeltà al Vaticano II, per poi tradirlo nei fatti attraverso la sua politica interna”. E “i termini conciliari come aggiornamento, dialogo, collegialità e apertura ecumenica sono stati sostituiti da parole quali restaurazione, magistero, obbedienza, ri-romanizzazione”. Inoltre “il criterio per la nomina dei vescovi non è stato affatto lo spirito del Vangelo e l’apertura mentale pastorale, bensì la fedeltà assoluta verso la condotta romana”. E “i sostenitori del Papa tra i vescovi di lingua tedesca come Meisner, Dyba, Haas, Groer e Krenn sono solo gli sbagli più eclatanti di questa politica pastorale devastante, la quale fa pericolosamente scivolare in basso il livello morale e intellettuale dell’episcopato. Un episcopato reso ancora più mediocre, rigido, conservatore e servile, è forse l’ipoteca più pesante di questo lunghissimo pontificato”.  Inoltre “Karol Wojtyla ha cercato il dialogo con le religioni del mondo, ma contemporaneamente ha disprezzato le religioni non cristiane definendole forme deficitarie di fede. In occasione dei suoi viaggi o preghiere di pace, il Papa polacco ha radunato con piacere attorno a sé dignitari di altre chiese e religioni. Non vi erano tuttavia molte tracce reali della sua preghiera teologica, anzi, il Pontefice si è presentato in sostanza come un missionario di vecchio stampo”.  Per il dopo Wojtyla, Küng auspicava un cambio di rotta, per dare alla Chiesa il coraggio di nuove spaccature, recuperando lo spirito di Giovanni XXIII e l’impulso riformistico del Concilio Vaticano II. E, invece, sul Soglio di Pietro arrivò Joseph Ratzinger, la cui nomina a Prefetto dell’ex Sant’Uffizio inimicò a Giovanni Paolo II buona parte del mondo progressista cattolico e le gerarchie ecclesiastiche più vicine alle correnti innovatrici della turbolenta fase post-Concilio.