San Raffaele Arnaiz Baron, modello per i giovani del nostro tempo

È stato definito uno dei più grandi mistici del XX secolo. Giovanni Paolo II, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù a Santiago de Compostela, lo ha proposto come modello per i giovani del nostro tempo. San Raffaele Arnaiz Baron nasce a Burgos in Spagna nel 1911 da una famiglia più che agiata e con valori radicati nel cristianesimo. La formazione della sua prima infanzia avviene al Collegio dei Padri Gesuiti. Ben presto inizia ad accusare dei problemi di salute: delle persistenti febbri colibacillari lo obbligano a interrompere gli studi. Una volta guarito, viene portato dal padre – di professione ingegnere forestale – a Saragozza e consacrato alla Vergine del Pilar come ringraziamento per la guarigione. Tale episodio segna fortemente l’animo di Raffaele. Riesce a ottenere la maturità scientifica e si iscrive alla Scuola Superiore di Architettura di Madrid, dove armonizza lo studio con una fervorosa e costante vita di carità, a partire dalle persone più bisognose.

È un giovane come tanti altri – dedito a sport, musica, teatro – che si distingue per una spiccata intelligenza unita a un carattere allegro, gioviale e amante dell’amicizia. Gradualmente si manifesta in lui anche un desiderio di crescere nella spiritualità cristiana approfondendo la sua relazione con Dio. Diventa membro di un’associazione per l’adorazione notturna e, continuando con intensità gli studi, si mette in preghiera quotidianamente e assiduamente davanti al Santissimo Sacramento. Ma il Signore lo chiama a un passo ulteriore, la consacrazione alla vita contemplativa, a cui si avvicina attraverso l’ordine monastico dei cistercensi di stretta osservanza, più precisamente la Trappa di San Isidro de Dueñas. Raffaele si sente eccezionalmente attratto verso quello che gli appare come il luogo che meglio corrisponde ai suoi desideri più intimi. Per questo motivo compie la scelta di interrompere improvvisamente i suoi corsi universitari ed entrare in monastero. “Per primo Dio, sempre Dio e unicamente per Dio”, è solito ripetere.

Dopo i primi mesi di noviziato e la prima Quaresima vissuti con entusiasmo, giunge una dolorosa prova che lo obbliga ad abbandonare in tutta fretta l’abbazia per ritornare in famiglia ed essere curato in modo adeguato dai suoi genitori. Si ammala, infatti, di una gravissima forma di diabete mellito. Inizia per lui un terribile calvario che lo vede entrare e uscire più volte dal convento in base all’evoluzione della malattia. In uno dei suoi numerosi scritti si rivolge a un confratello con queste parole: “Se tu vedessi che Gesù è seguito da una folla di peccatori, di poveri, di malati, di lebbrosi, e ti chiama e ti dà un posto nel suo seguito, e se lui ti guardasse con quei suoi occhi divini che irradiano amore, tenerezza e perdono, e ti dicesse ‘perché non mi segui?’, tu che faresti? Ti saresti unito – pure essendo l’ultimo, nota bene, l’ultimo! – alla comitiva di Gesù e gli avresti detto: ‘Vengo, Signore, non mi importa le mie sofferenze, né la morte, né il mangiare, né il dormire: se tu mi accetti, vengo… perché sei Tu l’Unico che ricolma l’anima mia’”.

Nonostante le difficoltà dovute alla sua condizione di infermità accetta amorevolmente i disegni divini e il mistero della Croce, ricercando in modo appassionato il Volto di Dio. È affascinato dalla contemplazione dell’Assoluto, nella tenera e filiale devozione alla Vergine Maria, “la Signora”, come ama chiamarla. Durante l’ultimo rientro in monastero – prima di salire tra le braccia del Padre Celeste nel 1938, ad appena 27 anni – scrive: “Ho lasciato la mia famiglia. Ho fatto a pezzi il mio cuore. Ho vuotato la mia anima dei desideri del mondo. Mi sono stretto alla tua croce. Cosa aspetti, Signore? Se quello che desideri è la mia solitudine, le mie sofferenze e la mia desolazione, prendi tutto, Signore; io non ti chiedo niente. Rafael ha questi soli desideri: unificarmi assolutamente e interamente con la volontà di Gesù; vivere soltanto per amare e soffrire; essere l’ultimo, meno che per obbedire”.

Poco dopo la morte la sua fama di santità si diffonde ovunque così come i suoi scritti spirituali che testimoniano il suo profondo ascetismo. Nel 1992 è proclamato beato da Giovanni Paolo II, mentre nel 2009 Benedetto XVI lo dichiara santo. Resta per tutti i cristiani l’eredità di questo giovane contemplativo la cui unica ambizione, pur nella tribolazione, era di vivere la sua “vita di infermo nella Trappa con il sorriso sulle labbra” offrendo e soffrendo da “oblato infermo e inutile…per i peccati dei miei fratelli, per i sacerdoti, i missionari, per le necessità della Chiesa, per i peccati del mondo”.