Coronavirus, prova o castigo?

Le definizioni che si sentono dire in ambito ecclesiale circa la pandemia, rifiutano la parola “castigo”. Concordo, ma pur ascoltando la voce dei tanti interventi civili che dicono di mancanze d’igiene, di ritardi in Cina, e altrove, d’impreparazione responsabile, poiché già dal 1999 l’Oms aveva dato una guida sulla preparazione alla pandemia, aggiornata nel 2005, di comportamenti indisciplinati – ancora oggi c’è un 30/40% d’indisciplinati – nel seguire le regole dettate, bisognerà dire che il villaggio globale ha dimostrato tutte le sue falle.

Niente castigo di Dio, ma un autogol formidabile, che poteva essere evitato. Il virus non soltanto ha trovato casualmente la combinazione genetica per l’accesso all’uomo, ma ha trovato anche le porte aperte per diffondersi. In fondo sono le porte aperte che producono la desertificazione, il cambiamento climatico, l’inquinamento da smog delle città, di plastica dei mari, e ancora altro. Porte aperte, stoltamente aperte, quando invece dovevano essere chiuse dalla prudenza, dalla previdenza, dalla volontà di lasciare un mondo migliore alle generazioni future.  Emerge un dato terribile; scopriamo che il mondo di oggi non è fatto per i giovani, ma per chi ha i soldi e la salute. Se fosse fatto per i giovani si penserebbe al futuro della terra sapendo che il futuro comincia con il presente.

Si potrebbe dire: Ma perché Dio non è intervenuto lui a fermare il virus? Addirittura, a non prodursi. La risposta diventa difficile, ma si può dire che poiché dal male Dio sa ricavare il bene, vuole farci vedere quanto siamo imprevidenti nella nostra presunzione di potere ogni cosa. Il Covid-19 ci fa vedere deboli, impreparati, superficiali, impelagati nelle questioni politiche. Tutto ciò può, se la lezione sarà ben compresa, portare a una vita più rispettosa della natura e dell’uomo.

Prova? Si è scelta la parola prova. Questo è vero per tanti e tanti incolpevoli, ma non per i colpevoli; per i colpevoli è un autogol che non si auguravano, credendo di giocare sulla terra una partita vincente sul clima, sulle economie, sulle guerre, e tutto il resto.

Leggendo il profeta Gioele, il “profeta della Pentecoste” e anche “della penitenza” si vede bene l’invito di Dio a riconoscere i propri sbagli, che non sono semplicemente tecnici e organizzativi, come noi vogliamo credere, ma morali. Dietro ad ogni inadempienza c’è una mancanza d’amore, c’è l’affermazione della propria libertà fuori da ogni vincolo di convivenza, che pur è una realtà ineludibile. E la convivenza vuole la corresponsabilità, vuole una legge morale, e Dio ce l’ha data, e in primis l’abbiamo stampata nella coscienza. La libertà non può essere che libertà condivisa, per essere libertà vera.

Come se ne esce dalla mancanza dell’amore? Tutti capiscono che manca l’amore, tranne i furbetti, e per questo il vicino di casa diventa importante; diventa importante il medico, l’infermiere, l’ospedale, le terapie, le ricerche, la patria anche. Ma non si può rimanere dei compagni di sventura, che cercano di uscirne, per poi riprendere l’individualismo di prima. Se ne esce rivedendo sé stessi. Ma rivedere sé stessi lo si può davanti a uno specchio, che ti faccia vedere chi sei. Non bastano i numeri dei contagi e dei morti; bisogna guardarsi dentro e arrivare a quella legge del tutto universale che dice: “Non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te”. Quanto a noi credenti facciamo un po’ di penitenza anche per i tanti che non vogliono nemmeno più udire la parola penitenza. E a questo non volere più la parola penitenza, si accompagna la quasi del tutto abolita parola peccato. Sì, la parola peccato può essere confusa come la trasgressione di una norma, ma non è così perché il peccato è disprezzo di Dio, come si sentì dire Davide dal profeta Natan (2Sam 12,9), o, come si legge nel profeta Osea, adulterio con il Male. La parola peccato allora cessa di essere una parola senza forza quasi si riferisca a una norma di poco conto, ma diventa disprezzo di Dio, adulterio con il Male.

Prova o castigo? Prova certo per gli innocenti; ma anche autogol per gli stolti, cioè autocastigo. Allora il linguaggio diventa corretto e ci conduce con la sua chiarezza a chiedere perdono a Dio dell’amore che non abbiamo dimostrato, nella volontà di viverlo in fretta.