Suicidio assistito: cosa chiedono davvero i giudici della Corte

L'epilogo del dibattito sul fine vita è quanto mai incerto. Mancano meno di tre mesi al 24 settembre, giorno indicato dalla Corte costituzionale entro il quale il Parlamento dovrà presentare una nuova legge sul suicidio assistito. Ma le diverse posizioni, all’interno del Comitato ristretto delle commissioni Affari sociali e Giustizia nonché all’interno del governo, non sono giunte ad una sintesi. È per questo che è slittata dal 24 giugno al 12 luglio la data d’inizio del dibattito in aula, il tempo d'attesa è colmato con nuove audizioni che possano aiutare i legislatori a trovare la quadra. E mentre si attende sul tema il pronunciamento annunciato dal card. Gualtiero Bassetti dopo la notizia della lettera inviata ai vescovi da un gruppo di politici cattolici, prosegue la riflessione intorno alle proposte sul tavolo. Ce n’è una presentata nel febbraio scorso da Andrea Cecconi, ex pentastellato passato al Gruppo Misto, che chiede espressamente l’eutanasia garantita in strutture pubbliche dal servizio sanitario nazionale. Risalgono rispettivamente a marzo e a maggio altre due proposte simili, le cui prime firmatarie sono Michela Rostan (Leu) e Doriana Sarli (M5s). Sullo sfondo, resta poi la proposta d’iniziativa popolare dell’Associazione Luca Coscioni. Più sfumata quella il cui primo firmatario è Giorgio Trizzino, del M5s. Se in un primo momento il testo prevedeva l’eutanasia, successivamente si è deciso di modificarlo intervenendo soltanto sull’attenuazione delle pene per chi aiuta al suicidio (art. 580 del codice penale), nella speranza – ha spiegato il deputato 5Stelle ad In Terris – di trovare un compromesso tra le varie forze politiche. Nelle scorse settimane, infine, una proposta sul fine vita è arrivata anche dalla Lega, e si fonda su tre cardini: garantire il diritto all’obiezione di coscienza per medici e strutture, ritenere nutrizione e idratazione trattamenti sanitari, rafforzare le cure palliative.

Mantovano: “Corte contraddittoria”

Ma la sabbia nella clessidra scende in modo inesorabile. Il 24 settembre è più vicino di quanto si pensi. Qual è il punto di vista dei giuristi sulla vicenda? Alfredo Mantovano, magistrato e già sottosegretario all’Interno, intervistato da In Terris, non risparmia qualche perplessità. “Ho qualche dubbio – spiega – che assegnare al Parlamento i compiti da svolgere, e finanche il tempo entro cui svolgerli, realizzi quella ‘leale e dialettica collaborazione istituzionale’ cui pure la Corte nella lettera afferma di ispirarsi”. Il magistrato – ascoltato in audizione alla Camera – ritiene poi che la lunghezza della missiva assuma “la struttura, l’articolazione e la sostanza di una sentenza”. Non solo. Mantovano è dell’avviso che “il contenuto della lettera inviata dalla Corte contiene delle contraddizioni”. In particolare egli evidenzia che in una prima parte del testo i giudici sottolineano che “al legislatore penale non può ritenersi inibito vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”. Il magistrato trova difficile, “alla stregua della chiarezza di queste affermazioni, conciliarne il contenuto col seguente passaggio”, nel quale si fa riferimento a “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”, che “potrebbe essere introdotta”. Ma allora esiste un modo per rispondere alle sollecitazioni della Consulta senza negare la tutela della vita? Per Mantovano la risposta è affermativa. Egli ritiene doveroso rafforzare le cure palliative, in quanto “la legge 38/2000 che le regola è stata poco sostenuta finanziariamente, e ancor meno applicata”. Ed è poi d’accordo con l’intento di attenuare le pene dell’art. 580 del codice penale sull’aiuto al suicidio assistito, “individuando – dice – quale soggetto attivo chi conviva stabilmente con il malato, precisando tipologie di condizioni che tendono meno grave l’illecito, a cominciare dal grave turbamento determinato dalla sofferenza altrui che interessa l’autore del fatto”. Secondo Mantovano, “può darsi che una risposta legislativa che valorizzi questi due aspetti non sia del tutto coerente con le indicazioni conclusive della Consulta”, ma – conclude – “sarebbe certamente coerente col buon senso e col senso di umanità”.

Nessuna affermazione di “un diritto a morire”

Modifica della parte del codice penale relativa al suicidio assistito che sarebbe una risposta coerente con la richiesta della Consulta anche ad avviso di altri giuristi. Dal canto suo Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del Pd, afferma ad In Terris che “realisticamente, se davvero si vuole trovare una soluzione, ci si dovrebbe concentrare soltanto sulla modifica dell’art. 580 del codice penale sull’aiuto al suicidio assistito”. Per lui, “in caso contrario, si creerebbe ulteriore scontro politico e non si troverebbe una soluzione mediana tra posizioni che appaiono inconciliabili sul tema”. E la Consulta sarebbe soddisfatta da una risposta che si concentrasse solo su questo aspetto? “Onestamente questo non so dirlo, ma credo che sarebbe l’unica risposta che il Parlamento in questo momento sarebbe in grado di dare”, osserva Ceccanti. Anche Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, intervistato da In Terris sottolinea che l’intento dei giudici è di “richiedere una modifica dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio in maniera assoluta in ogni circostanza”, perché “la Corte ha ritenuto che questo non sia in linea con la Costituzione in alcuni casi molto specifici, nei quali c’è una persona tenuta in vita in maniera artificiale”. Ma da qui – la riflessione di Mirabelli – nasce “la richiesta più ampia” di alcuni ambienti politici “di introdurre una disciplina del fine vita, cioè sostanzialmente un’eutanasia, passando da una non punizione dell’aiuto al suicidio alla modifica del testo complessivo dell’ordinamento con l’affermazione di una pretesa alla morte”. Ma ciò – rileva il presidente emerito della Consulta – “contrasterebbe con altri principi riconosciuti dalla Corte come il riconoscimento costituzionale al diritto alla vita”. Ecco perché – spiega Mirabelli – “l’ipotesi che si potrebbe praticare dal punto di vista legislativo sarebbe dare esecuzione all’ordinanza della Corte nei limiti stretti che la Corte stessa indica e non trarne occasione per una disciplina ampliativa e l’affermazione di un diritto a morire non previsto dalla Costituzione”.