“Non chiamatemi omofobo”

La gogna dei social network si è abbattuta sulla testa di Alberto Contri. Docente di Comunicazione sociale presso l’Università di Comunicazione e Lingue, presidente di Pubblicità Progresso, è stato accusato di omofobia, persino giudicato indegno del ruolo e della cattedra che ricopre.

La “colpa” che gli è stata attribuita è aver espresso un parere discordante nei confronti del suo collega Paolo Iabichino sul concetto di famiglia. Contri ha sottolineato la necessità “della figura materna e paterna per una buona formazione della personalità di un bambino”. Da lì è partito un copione già visto altre volte: il linciaggio mediatico. Contri ha reagito con un altro post in cui definiva “checche” alcuni membri della giuria di un programma televisivo. Intervistato da In Terris, il presidente di Pubblicità Progresso spiega ora le sue ragioni. 

Presidente, si aspettava di finire in questo calderone mediatico?
“Sicuramente ho commesso una leggerezza, ne sono pentito. Ho parlato a titolo personale, ma è chiaro che possa andarci di mezzo la Fondazione. Il punto è che mi è sembrato assurdo che Paolo Iabichino stigmatizzasse su un social network l’intervento del ministro Fontana sulla famiglia scrivendo che il 2 giugno scorso sarebbe stata forse l’ultima festa della Repubblica. Posto che a mio avviso vanno riconosciuti i diritti alle persone omosessuali, comprese le unioni civili, mi sono permesso di far notare che le parole del ministro sono tutt’altro che peregrine: esiste una differenza tra la famiglia aperta alla riproduzione, che possiamo chiamare biologica, e quella composta da persone dello stesso sesso. Da una piccola scintilla è scoppiato il finimondo, condito da minacce, insulti, richieste di dimissioni”.

Ma in un altro post ha utilizzato un termine poco lusinghiero per definire le persone omosessuali: “checche”…
“È stato un modo – assolutamente sbagliato, lo ammetto – di reagire al linciaggio cui mi stavano sottoponendo in Rete. Ho commentato un post di Linkedin scrivendo che era ora di finirla e che non mi spiegavo come mai, per esempio, pur essendo il 95,5% le famiglie italiane eterosessuali (fonte Istat), nel programma Ballando con le Stelle (servizio pubblico) ci fosse una sovraesposizione di gay nella giuria. Il che non mi creava problemi, ma trovavo disdicevole l’atteggiamento da ‘checche’ che è una caricatura dell’essere omosessuali. Conosco diverse persone gay, le considero amiche, che la pensano esattamente così, sono del parere che quell’atteggiamento ostentato, da gay pride per intenderci, sia lesivo della loro immagine. Quel post è stato un errore, di cui mi sono accorto subito cancellandolo. Tuttavia una persona lo ha salvato e lo ha esposto in pubblica piazza”.

Ha scritto che la stragrande maggioranza di psicologi e pediatri sostiene che per il bambino sia meglio crescere con una mamma e un papà. Qual è la documentazione scientifica su cui si è basato?
“Ci sono diversi studi. In particolare, mi ha fatto notare una docente di psicologia che gli studi secondo i quali non ci sarebbe differenza per un bambino nel crescere con una coppia di genitori eterosessuali o omosessuali sono poco affidabili. Questi, infatti, sono costituiti da domande rivolte direttamente ai genitori: è chiaro che loro abbiano tutto l’interesse a sostenere che i figli siano felici”.

Lei ha parlato di “una lobby molto rumorosa” e “capace di occupare sempre la scena”. Da cosa deriva questa capacità?
“Lobby non è una parolaccia. Quello di fare pressioni sulle forze politiche e sociali, nei termini consentiti dalle leggi, è un’attività lecita. Anzi, per venire alla sua domanda, ritengo che alcune associazioni lgbt riescano ad agire in modo molto efficace. La capacità di occupare sempre la scena significa che sanno fare bene l’attività di lobbying. Per tanti anni c’è stata una discriminazione nei confronti dei gay e oggi, per contrappasso, c’è una particolare sensibilità su questo tema. Ciò che voglio sottolineare, però, è che nel rispetto di tutti non può essere negata la libertà di pensiero. La libertà, ad esempio, di criticare l’utero in affitto. Allora davvero c’è un pensiero unico. Quanti si propongono di promuovere la libertà non possono ospitare sul proprio profilo insulti e falsità rivolti a chi la pensa diversamente, perché così facendo condividono sostanzialmente insulti e falsità diventando complici di chi le diffonde”.

Le offese sui social sono ciò che le ha dato più fastidio di questa vicenda?
“Che sia stata insultata la mia professionalità e 17 anni di lavoro gratuito nella Fondazione, che ho trasformato in un autorevole Centro di Formazione alla Comunicazione Sociale. Dispiace poi che nessuno abbia notato che dal sito e dai social gestiti da Pubblicità Progresso sono state promosse e rilanciate una serie di attività sostenute dall’associazione Diversity a favore dei temi lgbt: questa è una dimostrazione di indipendenza”.

Il 20 giugno ci sarà il cda di Pubblicità Progresso. Cosa si aspetta?
“Vediamo. Al centro dell’agenda ci sarebbe dovuta essere solo la preparazione della campagna sul rispetto delle diversità, ma abbiamo deciso di comune accordo di analizzare prima quanto è successo”.