Non c'è pace per i profughi Rohingya

Sembra un destino segnato quello dei profughi Rohingya, fuggiti dal Myanmar due anni fa a causa delle persecuzioni e le operazioni di sgombero per mano dell'esercito birmano nello stato settentrionale del Rakhine. Stando a quanto riporta il quotidiano statunitense The New York Times, almeno un migliaio di profughi erano pronti al rimpatrio già dal gennaio 2018, ma il processo è stato impedito dal governo del Bangladesh, che ha protestato contro l'idea di riportare le vittime nel Paese che le Nazioni Unite hanno bollato come “genocida”, perché fulcro delle tensioni da cui avevano avuto origine le persecuzioni. La promessa di rimpatri sicuri è servita a ben poco: altri 3.450 Rohingya hanno dovuto rimandare la loro partenza. 

Emergenza umanitaria

Da quando, due anni fa, ha avuto inizio l'esodo dei profughi dal Rakhine, nel vicino Bangladesh hanno cominicato a prendere forma i campi profughi. Ma il prezzo della libertà non ha il sapore di una conquista per molti di loro: nel limitrofo Bangladesh, dove hanno trovato riparo oltre 745.000 Rohingya, i campi profughi allestiti al confine sono sistemazioni di fortuna, realizzate con plastica e bambù dove spesso mancano le normali condizioni igieniche. A fine agosto, l'organizzazione internazionale non governativa Medici senza frontiere aveva lanciato l'allarme sottolineando “le misere condizioni di vita che i Rohingya devono affrontare nei campi, a cominciare dallo scarso accesso all’acqua pulita e dal numero insufficiente di latrine”. A causa delle condizioni di degrado in cui si trovano costretti a vivere, i bambini non hanno la possibilità di frequentare la scuola e le future generazioni hanno scarse possibilità di riscatto sociale, poiché non in grado di trovare un'occupazione.


Un campo profughi Rohingya a Balukhali, in Bangladesh – Foto © Sergey Ponomarev per The New York Times

Un tribunale internazionale

Le Nazioni Unite sono determinate a trovare una soluzione su più fronti. Per l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti UmaniZeid Ra'ad Al Hussein, l'emergenza umanitaria va affrontata in parallelo alla ferma condanna di quella che è stata definita “pulizia etnica” operata dall'esercito birmano. Secondo alcuni esperti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe istituire per il Myanmar un apposito tribunale internazionale per indagare i presunti casi di genocidio sull'esempio di ciò che è stato fatto, anzitempo, per le atrocità perpetrate in Rwanda e nell'ex-Jugoslavia. Oggetto di indagine, secondo il team di esperti internazionali, sarebbero le influenti forze armate raggruppate sotto il nome Tatmadaw, al governo da oltre cinquant'anni. Stando alle testimonianze oculari dei Rohingya sopravvissuti, i profughi del Rakhine sarebbero stati vittime di soprusi e “violenze strazianti”, come omicidi di massa, stupri di gruppo e la distruzione di numerosi villaggi. Le conclusioni a cui sono giunti gli investigatori sulle violazioni dei diritti umani nel Paese riportano – riferisce The New York Times – oltre 1.000 uccisioni di civili nello stato del Rakhine in soli pochi mesi del 2017.

Le responsabilità del governo

Nel luglio scorso il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha annunciato pesanti sanzioni al governo birmano come diretta ritorsione per le violenze inflitte in questi anni ai Rohingya. Nello specifico, Washington ha voluto prendere di mira il generale Min Aung Hlaing, personalità di spicco delle forze armate, che ha deciso di liberare diversi militari che si sarebbero macchiati di violenze nei confronti dei profughi, come lo sterminio nella città di Inn Din, “un vergognoso esempio della continua e grave mancanza di responsabilità dell'esercito e della sua leadership – ha affermato Pompeo. E proprio in tema di leadership, al centro delle polemiche più forti v'è il Consigliere di Stato del Myanmar, l'ex attivista per i diritti umani, Aung San Suu Kyi, in carica dal 6 aprile 2016


Rifugiati Rohingya nel campo profughi di Kutupalong, in Bangladesh – Foto © Associated Press