Morire di speranza

La speranza è “la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili” ha detto Papa Francesco davanti al  Corpo Diplomatico presso la Santa Sede ricevuto ieri in udienza. Per molti che sono in cammino nel mondo, gli ostacoli sono spesso fatali.

Aylan e gli altri

L'ultima tragedia ha il volto di un bambino di dieci anni, ritrovato senza vita dal personale dell'aeroporto Charles de Gaulle nel vano del carrello di un aereo atterrato a Parigi mercoledì mattina . Secondo quanto hanno riferito le autorità locali, il bambino era partito dalla Costa d'Avorio ed ha affrontato impavido temperature che, a un'altitudine fra i 9mila e 10mila metri, scendono oltre i – 50 °C. Le condizioni estreme lo hanno portato al collasso ed è tragico che parole alte e pure come speranza e infanzia servano a spiegare volti a cui il nostro mondo non dà nome. Per quel bambino dimenticato dall'umanità valeva la pena sperare nel tentativo di uno spazio di vita diverso dalla realtà dominata dalla miseria e dal conflitto. La pensavano allo stesso modo Yahuine Koita e Fode Tounkara, i due ragazzi di 14 e 15 anni morti assiderati nel vano del carrello di un aereo decollato da Conakry, in Guinea, e diretto a Bruxelles. Lì non bastarono i nomi perché, all'alba del millennio, l'Europa recepì uno schiaffo morale: “Aiutateci, soffriamo enormemente in Africa, aiutateci” era il loro appello nero su bianco accartocciato in un foglio ritrovato tra le loro mani. Era il 1999 e l'Europa era un cantiere in divenire, ma non fu sufficiente. Cristallizzatasi nelle sue strutture, ancora nel 2015 l'Unione Europea vide con sconcerto il volto del piccolo Aylan Kurdi, il profugo siriano annegato e ritrovato senza vita davanti alla spiaggia turca di Bodrum. Un corpicino composto, dignitosamente ritratto senza volto, perché il dramma, quando unito all'innocenza, non ha bisogno di visi né nomi: è universale.

I numeri di un 'dramma nel dramma'

L'impegno dell'Unicef a sostegno dei bambini e adolescenti migranti rifugiati è costante ed attivo sia nelle attività di protezione che inclusione sociale. Per questo, episodi come la scoperta di un bambino morto nella carrello di un aereo sono segnali forti di una presa di coscienza che passa anche attraverso l'analisi del contesto reale. Interris.it lo ha chiesto ad Andrea Iacomini, portavoce UNICEF Italia

Avete una stima di quanti bambini muoiono nei flussi migratori?
“Tra il 2014 e il 2018, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, si stima che siano arrivati in Italia oltre 70.000 minori stranieri non accompagnati. Nello stesso periodo di tempo circa 17.900 persone hanno perso la vita in mare, di queste più di 670 erano bambini e giovani. Sono numeri freddi, ma dietro ad ognuno c'è una storia, come quella del bambino senza nome ritrovato morto a Parigi nel carrello di atterraggio dell'aereo proveniente dalla Costa d’Avorio, o quella del ragazzo, nel 2015, sopravvissuto a un viaggio di 12 ore nascosto nel carrello di un volo Sud Africa. Al 30 novembre dello scorso anno i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia erano 6.300, bambini e giovani che hanno bisogno di tutto il supporto possibile e per i quali l'UNICEF attraverso il programma One UNICEF Response opera in Italia per garantire protezione, accesso ai servizi, diritto all'ascolto e alla partecipazione”.

Perché queste tragedie che coinvolgono minori sono definibili “un dramma nel dramma”?
“I dati che ho riportato poco fa, sono importanti perché ci raccontano una realtà, quella di chi si imbatte in viaggi lunghi e pericolosi in fuga da guerre, violenze e povertà, alla ricerca della possibilità di una vita migliore. Possiamo definirlo un dramma nel dramma, senza dubbio. Queste motivazioni sono le stesse che probabilmente hanno spinto quel povero bambino a morire nel carrello di atterraggio dell’aereo. Questa realtà è un racconto oggettivo della disperazione che si cela dietro ai numeri e alle storie che ormai da più di sei anni ascoltiamo per radio, televisione, sui social network, al bar sotto casa, ovunque. Il nostro impegno come UNICEF però deve essere quello di rendere dignità a tutte queste persone, di proteggerle e prenderci cura di ogni bambino”.

Secondo lei, episodi come questi, che coinvolgono minori, sono aumentati?
“Oggi, i bambini continuano a pagare il prezzo più alto. Il decennio che si è appena concluso per loro è stato letale. Per ogni atto di violenza contro i bambini che finisce sulle prime pagine dei giornali e genera sdegno, ce ne sono molti di più che non vengono segnalati. Dal 2010 le Nazioni Unite hanno verificato oltre 170.000 violazioni gravi contro i bambini in zone di conflitto, in altri termini più di 45 violazioni al giorno negli ultimi 10 anni. Il numero di paesi in conflitto oggi è il più alto da quando è stata adottata la Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel 1989, causando migliaia di morti, feriti e sfollamenti. Nel 2018, le Nazioni Unite hanno verificato più di 24.000 violazioni gravi contro i bambini fra cui uccisioni, mutilazioni, violenza sessuale, rapimenti, rifiuto dell’accesso agli operatori sanitari, reclutamento di bambini e attacchi contro scuole e ospedali. Nel 2018 sono stati uccisi oltre 12.000 bambini. Nel 2019 la Nazioni Unite hanno verificato più di 10.000 violazioni simili contro i bambini, ma i numeri sono probabilmente più alti. Se non è una tragedia questa”.

L'appello di Save the Children all'Europa

Chiede un “cambio di rotta” alle istituzioni europee Save the Children, l'Organizzazione che si occupa del sostegno ai bambini nel loro percorso migratorio proprio dai Paesi di provenienza fino a quelli di destinazione. Interris.it ha chiesto a Raffaella Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa, come può agire il Continente per evitare il ripetersi di tragedie come questa.

Save the Children è testimone diretta dell'estrema vulnerabilità dei minori, a partire dai luoghi di conflitto. Ora l'ennesima, shockante scoperta…
“Certamente è un immagine tragica di questo 2020 che purtroppo vede ancora oggi, in tante parti del mondo, bambini e adolescenti che cercano di fuggire da situazioni di povertà estrema senza trovare un mondo che li protegga. Non è la prima volta che accadono queste tragedie, come ci dimostra il passato. Sono situazioni che si ripetono ed è fondamentale che nulla di questo ci appaia normale. Queste notizie, al contrario, devono spingere la comunità internazionale a rafforzare le misure di protezione nei confronti di tutti gli esseri umani. Il fatto che non sia successo da noi non significa che non ci appartiene”.

Qualche mese fa, lei ha fatto appello perché l'Europa non resti inerme dinanzi alla sofferenza di minori…
“Sì, è inaccettabile per un Paese come l'Europa, che è un punto fermo nel mondo per la pace e i diritti umani. Questi minori sono tecnicamente chiamati 'minori stranieri non accompagnati', in molti casi si tratta di adolescenti che si mettono in situazioni di rischio, cadendo spesso nelle mani dei trafficanti. Per questo bisogna impegnarsi per agevolare la loro ricollocazione, soprattutto nei casi del loro ricongiungimento con i familiari che vivono in Europa. Senza dubbio, i corridoi umanitari sono una delle strade che va percorsa, perché si offre loro un'alternativa. Non dimentichiamoci che, prima di considerarli stranieri, sono minorenni”.

Secondo lei, in che mondo si può operare per favorire l'integrazione di minori in Europa?
“Sicuramente, nei Paesi dilaniati dai conflitti, è necessario agire subito per ridimensionare l'emergenza. Negli altri casi, invece, sarebbe fondamentale dare possibilità ai ragazzi di fare studi in Europa. Ci sono tante esperienze che si possono approntare per favorire una mobilità di giovani e ragazzi non necessariamente legata a ragioni umanitaria, ma a processi di formazione. Tutto questo aiuterebbe gli stessi Paesi europei ospitanti”.

Ha in mente qualche iniziativa?
“Piuttosto che un'iniziativa specifica, penso ad esperienze da cui possiamo attingere, come il programma Erasmus, dove anche ragazzi e adolescenti possano vivere esperienze formative di forrmazione, crescita e aprpendistasto lavorativo. È una strada che ha potenzialità di sviluppo e di cooperazione fra i Paesi”.

Paolo Ramonda (Apg23): “Necessario passare dalla commozione alla condivisione”

Come dimostrato a più riprese, anche Papa Francesco è sensibile al tema. Quando il Pontefice venne a conoscenza della tragica scoperta del corpo senza vita di un bambino che aveva, cucita nel fodero della giacchetta, la sua pagella, ne restò colpito e chiese alla giornalista spagnola che gli aveva donato una vignetta di Makkox raffigurante il bambino, di tenerla con sé. Importanza e urgenza sono le due parole chiave per designare l'attività del Papa e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Motivata dal Vangelo, la Comunità Papa Giovanni XXIII s'impegna in tutto il mondo, andando alle radici del disagio. Interris.it ha intervistato Paolo Ramonda, presidente della comunità. Interris.it lo ha intervistato:

Cosa simboleggia, al di là del fatto di cronaca, questa tragedia?
“Indica che c'è un divario enorme fra la possibilità che hanno i minori di essere accuditi dalle loro famiglie con uno stato sociale sufficientemente adeguato – come in Europa – ai minori che arrivano da contesti di fame e guerre. In questi giorni sono in Thailandia, dove come Comunità Papa Giovanni XXIII sosteniamo le mamme che accudiscono i loro figli disabili. Va, dunque, fatta una riflessione sulle possibilità di sostenere una famiglia in loco e su quelle in cui, laddove non sia possibile, è necessario procedere a una tutela con l'aiuto internazionale. In quest'ultimo caso, vanno sviluppati i corridoi umanitari, non solo in una parte residuale del mondo”. 

Secondo lei, quali sono i passi da fare nel campo dell'accoglienza?
“Spesso l'opinione pubblica si commuove sull'istante, ma poi non fa dei passi reali sulle politiche di sostegno e redistribuzione. Bisogna favorire la possibilità di lavoro nei luoghi di partenza perché, se c'è un lavoro, il capofamiglia può mantenere famiglia e figli sono liberi di crescere nella loro cultura e tradizioni senza andar via. Fintanto che così non è, c'è anche da attivarsi perché l'Europa abbia un'accoglienza integrata reale, non di massa, ma fatta con raziocinio. Si tratta di passare dalla commozione alla condivisione reale, che ci paga di persona e ci mette a disposizione gli uni degli altri”.

Come procede, in tal senso, l'Apg23?

“Noi cerchiamo di operare 'facendo crescere la coscienza di popolo', come diceva don Oreste Benzi, attraverso territori dove si lavora insieme e si ha cura gli uni degli altri. È la vera risposta alla 'cultura dello scarto' condannata di frequente da Papa Francesco. Abbiamo in attivo da alcuni anni in Sierra Leone un progetto di inserimento occupazionale che oggi coinvolge 30 ragazzi, che lavorano in una gelateria italiana e un ristorante. Questi giovani, che ora lavorano, non saranno 30 profughi che partono. Per quanto concerne i corridoi umanitari, nel campo profughi di Tel-Abbas, in Libano, abbiamo i giovani dell'Operazione Colomba che lavorano con le organizzazioni internazionali per la creazione di corridoi umanitari”.