La gioia di vivere oltre ogni limite

La vita, sana o malata, ha sempre un valore. E se queste persone sono abbandonate e non hanno nessuno ha un valore ancora più alto”, spiega Donata che insieme a suo marito Marcellino sono la mamma e il papà di una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, situata in provincia di Verona. Donata e Marcellino hanno aperto la loro casa all'accoglienza di bambini e adulti, anche affetti da gravi disabilità e patologie, persone che la società considera un peso, uno scarto, ma che con l'amore di una famiglia rifioriscono. Come ad esempio una ragazza oramai diciassettenne che i coniugi hanno accolto quando era piccolissima: i medici avevano detto loro che sarebbe vissuta solo pochi mesi. “Io non posso commentare una sentenza con parole da magistrato o da giudice – spiega Donata – Ma la vita è vita, io non mi permetterei mai di portare una persona a morire. C'è una soluzione anche al dolore, la soluzione non è la morte, ma l'amore, dare valore a quella vita. Io non mi sognerei mai di portare la mia ragazza in ospedale a morire. Mi dò da fare e lotto, sicuramente lei non potrà avere una vita lunghissima, ma mai potei pensare di portarla a morire”. La casa famiglia di Donata e Marcellino non è un faro nella tempesta. Sono molti, infatti, i membri della comunità fondata dal prete con la tonaca lisa che hanno scelto di condividere 24 ore su 24 la loro vita con gli ultimi, i poveri, gli scartati dalla società. Ad Assisi, terra di San Francesco, si trova la casa famiglia di Laura e Luca Russo. Oltre a due figlie naturali, sono genitori di altri nove persone, alcune di loro affette da disabilità anche gravi. In Terris lo ha intervistato. 

Tu e tua moglie siete mamma e papà di una casa famiglia dell'Apg23. Come è composto il vostro nucleo familiare?
“Abbiamo due figlie biologiche, un'altra bimba adottata perché in passato era stata dichiarata in stato di abbandono per motivo di una malattia neurologica, una microcefalia congenita; due figlie in 'collocamento' nella nostra casa che sono con noi da venti anni; due fratelli gemelli originari della Tanzania che sono con noi da 14 anni; da luglio abbiamo in affido un bimbo di un anno che ha una situazione patologica complessa che in casa è stato solo pochi giorni in quanto è stato sempre ricoverato, quindi io e mia moglie da quattro mesi ci dividiamo tra ospedale e casa; poi da ventuno anni vive con noi un ragazzo che è in carrozzina in seguito a un incidente stradale, da noi è arrivato dopo sette anni di ospedale; un ragazzo non vedente; un signore di 75 anni che è con noi da 12 anni e, infine, ci sono anche i miei genitori che si sono trasferiti qui in Umbria dalla Puglia. Trascorrono tutto il giorno con noi e quindi fanno parte della vita della famiglia”.

Nella vostra casa famiglia avete accolto anche persone affette da gravi disabilità. Come avete maturato la decisione di aprire loro le porte della vostra abitazione e del vostro cuore?
“Mi viene da dire che noi abbiamo aperto le porte a tutti, a chiunque bussa. Non è che abbiamo dato una preferenza, però negli anni ci siamo resi conti che le persone con una grave disabilità fisica, neurologica e neuropsichica, sono delle persone gravemente e fortemente dalla vita e che hanno avuto bisogno della nostra, anche dei nostri sacrifici, del nostro tempo e del nostro sì, affinché la loro vita avesse la possibilità di recuperare, di riacquistare funzionalità, capacità, libertà, passioni, impegni. Abbiamo visto che le persone con disabilità grave hanno delle circostanze negative intorno. Don Oreste diceva che per i poveri si applica la 'legge dei fattori negativi'. Mi spiego meglio: i fattori negativi in chi è povero si moltiplicano ossia si moltiplicano le difficoltà. Chi è povero è costretto a rubare, allora deve andare in carcere… Il nostro compito è stato quello di creare, attraverso la nostra disponibilità, il nostro cuore, intorno a queste persone delle circostanze che potessero permettere loro di riconoscere che la vita poteva essere bella e meravigliosa. Se io sono in carrozzina, abito al primo piano o al quarto piano la mia vita è una disgrazia, ma se ci fosse qualcuno che mi viene a costruire un ascensore io potrei scendere giù e la mia vita cambia. Noi abbiamo fatto da ascensore nella vita di tante altre persone. Se io tolgo queste circostanze, lascio quella persona in carrozzina sola al primo piano senza ascensore, quella persona prima o poi dirà portatemi in Svizzera, ad oggi potrebbe dire portami in Italia, datemi un farmaco letale perché sono disperato”. 

Tu hai scritto un libro che si intitola “Eutanasia di Dio – Il cuore di un padre di fronte alla debolezza di un figlio”. Di cosa parli? Perché hai deciso di raccontare la tua esperienza?
“Non si tratta solo di un racconto di storie, è un libro che è nato da solo perché nei vari ricoveri in ospedale mi serviva ed era davvero importante scrivere quello che stavo vivendo. E' una riflessione che parte dalle storie, dall'incontro. A volte io vedo che nel mondo politico, ma anche in quello giuridico, a volte si rischia di fare delle leggi solo sulla base di un aspetto ideologico, culturale e che quindi ha le sue correnti, le sue vedute, si rischia di cadere in quello che Papa Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato, ha denunciato cioè quello del relativismo, questo rischio che non esista più una verità assoluta in quanto tutto è opinabile. Io parto dall'incontro con le persone che ha generato una vera e propria relazione. Una relazione che si spende per l'altro e non dura solo 48 ore che potrebbe essere il tempo accompagno un disabile in Svizzera e gli dico 'adesso puoi morire', io torno a casa e sono più libero di prima. Io mi relazione con le persone dicendo che tutta la mia vita può essere legata alla tua, anche se devo sopportare dei sacrifici, ma che hanno un valore minimo, incommensurabile rispetto alla bellezza, alla gioia che mi viene da questa relazione. Ed è qui che riscopro le nostre vite come un prodigio. Il libro ha come obiettivo quello di provocare dei pensieri delle riflessioni diverse da quelle della massa, perché normalmente è facile incidere sul pensiero comune dicendo: 'adesso siamo tutti liberi perché la corte Costituzionale ha emesso una sentenza che ci permette di essere liberi tutti', ma in realtà non è così perché non si tiene conto del dramma della loro debolezza, sofferenza e fragilità. Ecco perché nasce questo libro che ha un titolo forte e provocatorio, ma che ha come obiettivo quello di far capire quanta grazia c'è nella vita di un bimbo che ha le unghie corte perché gliele taglio io, è pulito perché lo accudisco io. Ma se non avessero me – o chiunque che si prende cura di loro – resterebbero persi dentro la loro fragilità e chiamati all'abbandono, alla morte”. 

Parliamo della sentenza che la Corte Costituzionale ha emesso lo scorso 25 settembre, dichiarando l'aiuto al suicidio assistito lecito. Cosa ne pensi?
“Penso che sia davvero sconcertante, intanto nella metodologia nel senso che è davvero assurdo che il governo italiano non abbia mai le condizioni o gli interessi di intervenire sui temi etici. Il tema dell'eutanasia è secondario, anche nei media, salvo nel momento in cui è arrivata la sentenza, ma anche in questo lasso di tempo che la Consulta ha dato per legiferare non se ne è parlato. Siamo presi da altri pensieri, soprattutto economici. Noi eleggiamo delle persone al parlamento perché sappiano disciplinare il vivere comune, l'essere un Paese, un popolo per evitare di sentirci, come diceva don Oreste Benzi, un'accozzaglia. Nel merito, ovviamente, si tratta di un falso abbaglio: non c'è libertà quando pensiamo di poter arrivare a toglierci la vita anche in situazioni drammatiche. Non si può definire libertà quando si va a sopprimere un bene che ha il primato assoluto non solo a livello umano e etico, ma anche a livello giuridico, perché la vita è sempre stata riconosciuta come un bene indisponibile, intoccabile. E invece diventa addirittura disponibili in certe disponibili. Questo è un falso ideologico. L'esaltazione della libera autodeterminazione che è alla base di questa sentenza è un fattore disgregativo della società perché permette a tutti di guarda solo ed esclusivamente alla propria vita come bene disponibile per se stessi e si perde l'orizzonte di vdi riconoscere la nostra vita legate alle altre. Io sono ferito dall'idea che una persona possa chiedere l'eutanasia. Perché quella richiesta di eutanasia è un fallimento per la società”. 

Negli ultimi anni parte della società è arrivata a considerare il suicidio assistito come una risposta alla sofferenza, come mai?
“Perché si è usato lo spettro della sofferenza in una società tutta proiettata al benessere. La sofferenza spaventa tutti. Quando ci troviamo in buona salute e si trova a dover pensare di mangiare tramite una peg o imboccato da qualcun altro, si pensa: 'Mai!'. Quando si vive quella sofferenza sono pochissime le persone che chiedono di morire. Attiviamo il desiderio di ua vita che è strabordante e pretende di essere vissuta con tutte le nostre forze, aldilà delle intenzioni espresse quando stavamo bene. Ci si rende conto che è una vita possibile e lo diventa sempre di più se ci sono delle relazioni amicali e parentali che ti restituiscono la bellezza e il gusto per la vita. Se invece si viene bombardati di messaggi che inducono a pensare di essere solo un peso, si è portati a pensare: 'Tolgo il disturbo'. Si è cavalcato questo spettro della sofferenza sulla base di poche situazioni che hanno invocato il suicidio assistito. Il messaggio che la vita è più forte, è più grande, non è stato fatto passare”.

Da credenti, come possiamo accompagnare i malati e le loro famiglie?
“Abbiamo la via maestra, l'esempio di Cristo che ha scelto l'uomo spogliandosi completamente di se stesso per incarnare la storia dell'uomo. Noi abbiamo un metodo molto chiaro che è quello di spogliarci di noi stessi per condividere in modo diretto e quotidiano, la vita di chi è in uno stato di sofferenza”. 

La Consulta nella sua sentenza ha affermato che sul suicidio assistito è “indispensabile l'intervento del legislatore”. Vuoi lanciare un appello al governo italiano?
“Onestamente ho paura a lanciare un appello, anche perché le forze politiche che adesso sono al governo non sono così unanimi nell'accogliere le richieste di sostenere la vita anche nelle sue condizioni di fragilità. Però è anche vero dall'altra parte che non possiamo esimerci dall'impegno di dare chiarezza, a questo punto, di riconoscere la legittimità costituzionale della legge sul consenso informato e di promuovere e promulgare una legge che venga da quelle persone che abbiamo eletto perché ci permettessero di considerarci un popolo, pur nella diversità delle posizioni e nella molteplicità delle idee. Devono portare avanti l'impegno che si sono presi di costituire una comunità civile e solidale. Lì dove non c'è la solidarietà io credo che ci sia la più grande dichiarazione di fallimento di un compito del Parlamento. I parlamentari, tutti, hanno il compito di generare un tessuto sociale e solidale. Se si dimentica questo aspetto vuol dire che si sono creati degli individualismi che sgretolano questo essere comunità. E questo è pericoloso perché diventa il delirio dell'egoismo, dell'egocentrismo, della sopraffazione dell'uno nei confronti degli altri”.