La Cina ha dei campi di detenzione musulmani?

Nello Xinjang esistono centri abitati che sembrano città utopiche. Il nuovo Villaggio dell'Armonia, il nuovo Villaggio dell'Unità: persino i nomi palesano valori alti, di civile convivenza. In questi centri, gli abitanti dormono circa sei per ogni stanza, hanno a disposizione scuole, servizi di ristoro, svago. Nel centro di consulto psicologico campeggia la frase “I tuoi segreti sono la mia responsabilità”. Bastano queste parole lapidarie a smascherare quelli che le Nazioni Unite hanno definito campi di detenzione nei quali sono relegati gli Uiguri, un'etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina

“La macchia del secolo”

Negli ultimi due anni, il Partito Comunista ha eretto una vasta rete di campi di detenzione allo scopo di tenere d'occhio gli Uiguri, soggetti – secondo Pechino – al fondamentalismo religioso. E così, non senza forzature, il governo centrale ha strappato quest'etnia, inserita appieno nella “Terra di Mezzo”, per relegarli in tali campi in cui poterli ri-educare. Grazie alla sua forza diplomantica e al ruolo economico, i funzionari della Repubblica Popolare Cinese hanno cercato di zittire qualsiasi voce critica conclamante la violazione di diritti umani: per Pechino, i campi nascono per sradicare il radicalismo religioso, non per indottrinare un'etnia minoritaria ai valori del Partito Comunista cinese. Non sono mancate voci critiche dall'altra parte del Pacifico. Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha definito la segrergazione degli Uiguri, “la macchia del secolo“, evocando un mancato rispetto dei diritti umani sin dai tempi della strage di Tienanmen nel 1989.


Un murale raffigurante gli Uiguri alle urne – Foto © Gilles Sabrie per The New York Times

Paesi che guardano, Paesi che si voltano

Nel luglio scorso a Ginevra, l'Alto Commissario per le Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha diffuso una lettera firmata da 22 Paesi – fra cui Regno Unito, Francia, Germania, Canada e Giappone – che si appellava al governo di Pechino chiedendo la chiusura di questi campi di detenzione di massa. Ma, come sottolinea il quotidiano statunitense The New York Times, gli interessi economici di taluni partner commerciali con la Cina spingono gli stessi Paesi a non sbilanciarsi troppo sulla questione, finanche a tacere. Il primo ministro della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, per esempio, all'indomani degli attacchi del suprematista bianco Tarrant nelle moschee di Christchurch, ha fatto visita al governo della Cina senza fare menzione delle condizioni degli Uiguri. Lo stesso comportamento ha avuto il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, strenuo difensore dell'Islam nel suo Paese, eppure sordo al grido degli Uiguri durante l'incontro con Xi Jinping. Dalle colonne del The New York TimesDaniel R. Russel, deputato agli affari di Asia Orientale e Pacifico durante il governo Obama, accusa tali Paesi di non voler vedere: “Molti, molti governi guardano dall'altra parte e si autocensurano sulla questione dello Xinjiang” scrive, alludendo agli interessi di tali nazioni nell'export verso la Cina e agli investimenti di Pechino nei loro stessi Paesi. Durante la recente Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel Palazzo di Vetro, il presidente Usa, Donald Trump, non ha fatto menzione degli Uiguri, nonostante le recenti frizioni con la Repubblica Popolare Cinese. 

Una domanda aperta

La questione resta aperta, così come la voluta ambiguità nella quale versano tali centri abitati. The New York Times ha seguito le detenzioni per diverso tempo, riportando storie dei diretti protagonisti della ri-educazione. Uno di questi è il 25enne Abduweili Kebayir, uno Uiguro relegato per circa otto mesi in uno dei campi nello Xinjiang insieme alla famiglia . Intervistato dal giornale, ha dichiarato: “Ora riconosco gli errori commessi”. Gli fanno eco le parole del governatore della regione, Shohrat Zakir, per il quale il “sistema di ri-educazione” ha lo scopo di eliminare il radicalismo islamico. La domanda resta: le parole di Kebayir suonano come presa di coscienza o frutto di un orientamento imposto? Ancora non c'è una risposta, almeno fino a quando le Nazioni Unite non adotteranno soluzioni efficaci per abbassare la cortina che grava sullo Xinjiang.


L'entrata nel “Nuovo Villaggio dell'Armonia” – Foto © Gilles Sabrie per The New York Times