Il maestro rivoluzionario: “Voti? No grazie”

Una scuola senza voti è possibile. E’ quello che in questi ultimi cinque anni ha dimostrato Davide Tamagnini, sociologo e maestro presso la scuola primaria “Don G. Ferrari”, nell’istituto comprensivo di Varallo Pombia, in provincia di Novara. Via le valutazioni numeriche dalle pagelle e spazio a una scala composta da tre indicatori che ha i colori del semaforo: verde se l’obiettivo è stato raggiunto, giallo se c’è ancora qualche aspetto da approfondire e rosso se ci sono delle difficoltà importanti. Con il suo metodo, Tamagnini ha fatto in modo che i bambini e le loro famiglie diventassero parte integrante della compilazione della pagella. Ecco allora che l’ansia di prendere un brutto voto sparisce e la scuola torna ad essere un luogo felice dove poter apprendere serenamente. In Terris lo ha intervistato.

Come è nata l’idea di questa sperimentazione?
“Dall’esigenza di trovare uno strumento che fosse coerente con la didattica che stavo cercando di costruire in classe. Prima di mettermi a pensare a come fare la valutazione, ho pensato che fosse necessario che la scuola rivedesse la sua didattica. Con tutte le cose che ci sono in campo, mettere un voto mi sembra una cosa assurda. Allora ho approfondito un po’ il discorso della valutazione, anche rispetto a quello che il ministero, sia in passato sia ancora oggi con l’ultima legge la 62, chiede agli insegnanti. Ci chiede tante cose belle e poi alla fine partorisce questo ‘topolino’ assurdo di ‘dire mettiamo un voto numerico’. Era necessario uno strumento che mi permettesse di osservare i cambiamenti e i percorsi dei bambini mentre questi avvenivano. E quindi la valutazione numerica, che in termini normativi sarebbe la valutazione sommativa, non serviva né a me né ai bimbi né alle famiglie. Questa è stata la mia idea iniziale e su queste basi ho costruito un serie di strumenti che mi permettessero di tenere conto dei bambini, del loro percorso e del loro punto di partenza”.

In che cosa consiste il suo metodo?
“Gli strumenti che oggi utilizzo sono diversi, a partire dalla tabella con i colori del semaforo (vedi immagine, ndr) che è diventata un po’ la mia icona. Lì dentro ho scritto tutto ciò che il ministero chiede, in termini di obiettivi dell’apprendimento. Questa tabella, che a partire dalla prima elementare è in mano ai genitori e dalla terza in quelle dei bambini, diventa il luogo di confronto dei punti di vista di tre soggetti diversi: insegnanti, alunni e famiglie. Niente di sconvolgente, non ho inventato nulla. Una tabella simile l’avevo vista in un’università dove veniva utilizzata con dei disabili e mi è sembrato uno strumento facile e comprensibile a tutti e quindi ho provato a riadattarlo alle mie esigenze. Poi c’è una parte dedicata all’autovalutazione che gli alunni fanno sia con il ‘semaforo’ sia in termini narrativi: sin dalla prima elementare, gli alunni in pagella si valutano da soli. Questo avviene alla fine di un confronto con i compagni che li aiutano a capire quali sono i loro punti deboli e quelli di forza. Infine c’è quello che viene chiamato il ‘giudizio degli insegnanti’. Invece di fare quelle cose abbastanza sterili, dove le differenze tra un bambino e l’altro sono date solo dai voti numerici, nella pagella rispondo all’autovalutazione dell’alunno. L’altro strumento che uso è la lettera che scrivo a metà quadrimestre a ogni studente. Inoltre dalla quarta elementare, abbiamo chiesto anche alle famiglie di scrivere qualcosa ai propri figli. Nonostante tutte le difficoltà che un genitore può avere nella scrittura nessuno si è mai tirato indietro. Io in questo caso divento un messaggero e consegno questo scritti ai bambini. Il momento, se così si può dire, diventa quasi magico: leggono in classe le lettere dei genitori e così capiscono come vengono visti dalle loro famiglie”.

(Parte della pagella con la tabella di valutazione a colori utilizzata da Tamagnini)

Utilizzando questo sistema, come fai a dare un feedback ai bambini rispetto alle loro conoscenze?
“Non c’è un momento in cui al bambino viene chiesto fammi vedere di che colore sei. I miei tempi sono abbastanza lunghi e si basano soprattutto sull’osservazione. Dopo due mesi dall’inizio dell’anno scolastico compilo per la prima volta la tabella che poi completo a fine quadrimestre. Ma ci sono delle cose per le quali si ha bisogno di un riscontro immediato. In questo caso, semplicemente, ho utilizzato le frazioni. Se su una prova ci sono cinquanta domande, tu quante risposte corrette hai dato? Quaranta, ecco allora si calcola la frazione e la percentuale e il bambino ha una tabella riassuntiva sua, dove tiene nota di tutte le prove che facciamo. Se la percentuale è bassa l’alunno capisce da solo che lo studio non è stato efficace. L’assurdo è calcolare il voto in base alle risposte date. Se io ho dato l’80% delle risposte esatte perché deve trasformarsi in un otto? Il voto è abbastanza oscuro secondo me, nasconde troppe cose a chi lo riceve, ma probabilmente anche all’insegnante che non si premura di osservare tutte le cose che ci sono in gioco nell’apprendimento”.

Ogni genitore penso si aspetti di veder in pagella un voto: quali sono state le reazioni a questo nuovo metodo di valutazione?
“La maggior parte delle famiglie ha detto che si capiva ciò che il proprio figlio sapeva. Se io dò un dieci in italiano non si capisce bene a cosa si riferisce. Noi sappiamo di dover lavorare su cinque sei ambiti, ognuno dei quali ha degli obiettivi diversi. C’è una tale complessità e ricchezza in un percorso di apprendimento che la sintesi espressa nel voto non è chiara per niente. Sono tante le componenti che vengono racchiuse in una valutazione, ma tutti sembriamo accontentarci di questa sorta di ‘pellicola’ superficiale con la quale etichettiamo gli apprendimenti. Purtroppo oramai è una questione culturale. Possiamo mettere un voto quando andiamo a mangiare un panino perché su Tripadvisor possiamo mettere le ‘stelline”, Amazon se facciamo un acquisto ci chiede di valutarlo… La logica del voto oramai è abbastanza chiara, ma purtroppo non è trasparente. I genitori mi hanno detto, fin dal primo anno, che così riescono a capire meglio dove e come aiutare il figlio. Valutare un bambino mentre sta imparando, già mettendogli un marchio chiaro di quale sia il suo livello di apprendimento mi sembra un po’ disonesto, anche perché ci sono degli aspetti per cui bisogna veramente dare all’alunno tanto tempo”.

Questo sistema è anche un modo per ritornare un po’ al passato e coinvolgere i genitori nell’educazione dei figli…
“Sì, io penso che siamo tutti consapevoli del fatto che i bambini non sono un’isola. Lavorare con le famiglie può essere faticoso, ma noi non possiamo prescindere da questo. Se il minore non sta bene nel contesto dove vive o se i sistemi non comunicano, non dialogano tra loro, tutto diventa molto difficile. L’idea è che i genitori siano portatori di un punto di vista, magari non essenziale, ma importante. E’ il tentativo che ho fatto e mi sembra che il processo dia risultati”.

I bambini a cui hai insegnato fino ad oggi, a settembre entreranno alle scuole medie. Sicuramente si troveranno di fronte ad un altro sistema di valutazione. Questo potrebbe rappresentare un ostacolo per loro?
“Più che uno scoglio è un’occasione. I bambini sono intelligenti, sanno che contesti diversi chiedono loro cose diverse. Penso che per loro la difficoltà non sarà tanto capire la logica del voto ma accettare che ora non saranno più nella scuola che hanno conosciuto e che li valorizzava per quello che facevano. Io non sono spaventato da questo, per loro il fatto di essersi allenati per cinque ad auto valutarsi e quindi riflettere sui propri apprendimenti e avere consapevolezza dei propri limiti e punti di forza, probabilmente ha le ‘spalle larghe’ per affrontare anche situazioni meno qualificanti. Io ho cercato di allenarli a non essere superficiali”.

Quali sono le cose che dovrebbero essere modificate e quelle che dovrebbero essere mantenute nella scuola italiana?
“La scuola secondo me deve iniziare a riprendere in mano la sua dimensione educativa. Noi non dobbiamo educare delle menti, ma istruire delle persone. Questo la scuola di oggi lo ha un po’ perso. Se penso alle specializzazioni che si fanno alle superiori o all’università, nel modello industriale in cui siamo inseriti, è chiaro che la la scuola deve orientare gli alunni verso il mondo del lavoro. Ma fare questa cosa fin dalla primaria mi sembra di un’assurdità insensata. L’insegnante che recupera la dimensione politica del suo lavoro, che non è soltanto istruzione, ma anche educazione, lavora con uno spirito diverso, innanzitutto formandosi e mettendosi in discussione. Quello che manca nella mia categoria è proprio la formazione. La scuola ha bisogno è di docenti preparati a fare questo lavoro, che vuol dire non solo conoscenze e competenze, ma anche una chiara idea di quella che è la dimensione politica del nostro lavoro. La scuola avrebbe bisogno di riconoscere i bisogni dei bambini che molto spesso dal mondo adulto vengono un po’ bistrattati”.

 

 

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