Giovanni Pettorino: “Salvare vite in mare primo obiettivo della Guardia Costiera”

L'ammiraglio Giovanni Pettorino è nato il 24 luglio 1956 da una famiglia originaria dell’isola di Ischia. Sin da bambino, guardando il nonno e gli zii, ha sognato di poterli imitare, dato che lavoravano sul mare. Dopo il diploma nautico e un'esperienza di tipo sportivo, entra nella Guardia Costiera. Grazie alla laurea transita negli ufficiali della Marina Militare, ciò gli permette di mettere le basi per la sua lunga e fortunata carriera che l'ha visto impegnato nelle Capitanerie di Porto di mezza Italia: Sanremo, Gioia Tuaro, La Spezia, Ancona, Genova. Poi nel 1991 la partecipazione alla prima missione italiana in Albania, quando non avremmo mai potuto immaginare l'evolversi dei flussi migratori. In Terris lo ha intervistato.

Comandante Generale Giovanni Pettorino, la Guardia Costiera anche dopo 30 anni di attività fa dello spirito di servizio la sua principale caratteristica. E' così?
“Siamo un corpo della Marina Militare al servizio del Paese; al servizio di tutti gli usi civili del mare; alle dipendenze funzionali delle amministrazioni che si occupano del mare ma che anche dei trasporti marittimi. Un corpo composto da 10.600 uomini a disposizione di coloro che lavorano o trascorrono del tempo libero in mare. Vorrei precisare che le Capitanerie di Porto nascono nel 1865 grazie a Vittorio Emanuele II, che nella splendida cornice di Palazzo Pitti a Firenze, allora Capitale d’Italia, firmò il provvedimento che le ha istituite. Poi l'8 giugno 1989 con un decreto interministeriale dell’allora ministro della Difesa e quello della Marina Mercantile, la componente operativa del corpo della Marina Militare impegnata in certe azioni venne definita Guardia Costiera”.

Quali sensazioni si hanno quando si salva una vita?
“Facciamo della salvaguardia della vita umana in mare, la nostra prima mission. Per noi è il compito principale, anche salvare una sola esistenza è un risultato enorme, grandissimo. Noi ci comportiamo così, sempre e comunque. L’abbiamo sempre fatto, in ogni condizione. Fa parte della nostra storia. E' il nostro DNA”. 

La crisi albanese è entrata nell'immaginario collettivo con quella diapositva che inquadra una nave con oltre 20mila persone. Cosa ricorda? 
“8 agosto 1991, tutto nasce quel giorno. All’improvviso, una mattina nel porto di Bari si presenta una motonave albanese con 22mila persone a bordo che tentavano di raggiungere il nostro Paese. Da quel momento è iniziata una grande opera di soccorso nei riguardi di queste persone che con mezzi fatiscenti, ai limiti della galleggiabilità, tentavano di raggiungere le coste italiane. Da allora la Guardia Costiera ha coordinato molte operazioni che hanno salvato circa un milione di persone. Un numero veramente enorme. Di quell’esperienza ricordo che dopo pochi giorni dall’arrivo di questi albanesi, il governo italiano firmò un memorandum con l’esecutivo albanese per fornire una serie di aiuti alimentari e economici. E nel frattempo venne organizzato, con sei unità della Guardia Costiera, un pattugliamento congiunto con gli albanesi di quelle coste. Da un lato intervenivamo a sostegno delle popolazioni, dall’altro cercavamo di evitare flussi così massicci. Partecipai a questa missione e capii subito che serviva organizzazione”.

Come si può arginare il fenomeno migratorio?
“C’è da dire in maniera netta che quando queste persone si mettono in mare nei mezzi che conosciamo è già tardi. Più o meno consciamente mettono a gravissimo rischio la propria vita. È dunque necessario avviare ogni azione affinché queste imbarcazioni non partano. Quindi è d’esempio quello che venne fatto in Albania, cioè aiutare il Paese di origine. Garantendo stabilità e condizioni che consentano a questi popoli di poter vivere nei loro Stati”.

Cosa è cambiato dal giugno 2018 con l'istituzione della Sar (Search and rescue ndr) libica? 
“Già dal 2017 con il precedente governo (italiano ndr) – in accordo con la Commissione europea, che ha finanziato dei progetti della Guardia Costiera libica – sono state avviate una serie di azioni per conferire a quel Paese un’organizzazione autonoma, efficiente e stabile in materia di ricerca e soccorso. Il primo passo è stato quello della Libia che aveva già sottoscritto la Convenzione Internazionale di Amburgo: quella su ricerca e soccorso in mare. L’aveva firmata da anni, ma non aveva mai dichiarato una sua zona Sar. La zona Sar non è un’area di giurisdizione; è un perimetro nel quale ogni Paese che si affaccia sul mare dichiara di voler prestare assistenza. E quindi poter mettere in atto ogni azione necessaria per salvaguardare vite umane. La Libia dopo aver individuato l’area ha seguito tutte le norme previste dalle procedure internazionali, depositando le coordinate di questo luogo all’Organizzazione Internazionale del mare, l’IMO di Londra. E ora è formalmente tra le aree di ricerca e soccorso”.

Quali rapporti intercorrono tra la Guardia Costiera libica e e quella italiana? 
“Come previsto dai trattati, le guardie costiere si parlano tra loro,si forniscono reciprocamente tutte le informazioni necessarie affinché le operazioni di soccorso possano avvenire con la massima efficienza”.