Don Fabrizio, nella terra di Gomorra

Raccontare una toccante esperienza di vita nell'esiguo spazio di un libro non è certamente un'impresa facile. Tanto più se, al suo interno, trovino posto pensieri intensi, ricordi toccanti e sprazzi di vita vissuta a contatto con i margini sociali di una delle più importanti città italiane. Padre Fabrizio Valletti, gesuita, ci ha provato convogliando in un testo scritto, dall'emblematico quanto chiaro titolo “Un gesuita a Scampia”, le sue riflessioni più intime sugli anni passati fra le famiglie del noto quartiere della periferia di Napoli, dove ha avuto la possibilità di confrontarsi con un mondo ambivalente, stretto nella morsa del degrado, urbano e spirituale, ma allo stesso tempo desideroso di rinascere, ancorandosi alla speranza di una “riqualificazione umana” che possa passare, in qualche modo, anche dal confronto con la fede. Non è stato semplice: trascrivere l'immensa diversità incontrata fra i grigi palazzi, fra i rumori e gli odori di un territorio dimenticato, ha richiesto una meditazione profonda, bilanciata fra l'impegno profuso con giovani e adulti residenti a Scampia e il raffronto continuo con una realtà con cui fare costantemente i conti, quella della criminalità.

Divergenze sociali

Padre Fabrizio, però, non vuole parlare del suo come di un libro nel vero senso della parola: “Diciamo che è più una raccolta di pensieri e riflessioni – ha spiegato a In Terris – che ho cercato di raccogliere in 2 o 3 punti che ritengo salienti: innanzitutto, quando arrivai per la prima volta a Scampia, mi resi conto quanto fosse necessaria la cura dell'educazione, poiché molte delle famiglie che ho incontrato vivevano nell'ignoranza. Rielevarle attraverso un percorso umano, oltre che spirituale, avrebbe certamente permesso di infondere in loro la capacità di scelta. Questo anche in relazione al discorso della disuguaglianza sociale che, in una città grande come Napoli, è un fattore da tenere in considerazione”. Divergenze che, inevitabilmente, contribuiscono a marcare ancor di più quel confine preesistente, creato dall'abbandono e dalle cronache, fra il quartiere e il resto della città: “Da una parte – ha detto ancora il sacerdote – c'è una Napoli bene, dall'altra le periferie degradate dove è sempre difficile discernere fra il bene e il male. Ovviamente, queste sono considerazioni nate con l'esperienza di tanti anni”.

Assumere una responsabilità

In un contesto come quello di Scampia, dove il confine fra vita e perdizione è quantomai sottile, operare per la maturazione di una coscienza collettiva può costituire uno dei deterrenti principali alla piaga della criminalità organizzata: “Inutile dire che, operando fra le persone del posto, ho avuto modo di affrontare i risvolti criminali che vi agiscono. L'incidenza della malavita, in un ambiente come quello, destabilizza il suo contesto sociale: per far maturare una coscienza bisogna innanzitutto saper avvicinare le persone ed è un percorso che va al di là della ritualità ordinaria”. Ma in quale modo può essere possibile scardinare le radicate convinzioni sul mondo di Scampia e offrirne una visione alternativa? “Quel che il Signore ci chiama a fare è assumerci delle responsabilità. Chiamare il protettore o il boss vuol dire mancare di farlo e ragionare nell'ottica del 'facilitatore'. Per opporsi a questa mentalità occorre assolvere all'impegno al quale Dio ci ha chiamati assumendo una maturità che non è solo spirituale”.

I cuori di Scampia

Una consapevolezza di sé che si costruisce attraverso l'ascolto, la dedizione perpetua e, ancor di più, nell'insegnamento di una prospettiva di vita che lasci da parte i contesti del degrado e della criminalità per aprirsi a una via di riconciliazione, con se stessi prima ancora che con la società: “Un processo fattibile per avvicinare le persone di Scampia, nate e cresciute in ambienti infettati dall'abbandono sociale, è la desacralizzazione della pietà, in modo che questa si avvicini di più alle vicende umane. Rendere il linguaggio chiaro, comprensibile, avvicinare le coscienze di queste persone a uno spirito interiore. Questa è un'esperienza che vivo, ad esempio, a contatto coi detenuti, cercando di aiutarli a uscire dal loro egocentrismo per scoprire quell'umanità che, in un ambiente di periferia, è peraltro presente in larga misura”. Non va dimenticato che, il più delle volte, l'affresco sociale dipinto attorno a chi quegli ambienti li vive contribusce a creare una coscienza collettiva difficile da intaccare: “E' importante – ha detto ancora padre Valletti – che i ponti del dialogo vengano innanzitutto costruiti tra le 'classi'. E, soprattutto, lavorare sui giovani che a Scampia sono tanti e desiderosi di sganciarsi dai retaggi costruiti attorno a loro: lo scoutismo, in questo senso, è un'esperienza positiva. Durante la mia esperienza lì, è nato un gruppo tutt'ora attivo e questo è certamente importante: ripartire dai piedi, dal cammino, per commuoversi e progettare insieme come cambiare le cose. E' un'immagine molto bella che ho avuto modo di sperimentare a scuola come fra gli scout”.

Un percorso spirituale, quello di don Fabrizio, ma anche e soprattutto umano perché articolato fra la conoscenza della sofferenza altrui e l'operarsi per contribuire all'edificazione di coscienze nuove, come insegna anche Papa Francesco: “Negli anni ho vissuto esperienze che mi danno grande consolazione ma non bisogna assolutamente fermarsi. C'è bisogno, a Scampia come in altri contesti difficili, di saper fare gruppo, comunità e anche di fidarsi dei laici perché, senza di loro, la Chiesa non può inserirsi in determinati ambienti e non può crescere. Dare ai laici l'autorevolezza che il loro ruolo richiede significherebbe conformarsi alla dimensione del popolo di Dio di cui dobbiamo essere al servizio”.