Opinione

Da Wojtyla a Bergoglio la conversione pastorale e missionaria della Chiesa

Karol Wojtyla, da arcivescovo, aveva partecipato al Concilio, era maturato sul piano sia dottrinale che pastorale grazie al confronto tra scuole diverse, esperienze diverse. E poi da Papa, primo Papa non italiano dopo 456 anni, si comportò da autentico “figlio” del Concilio, e impostò totalmente su di esso, sull’attuazione dei documenti conciliari, il suo pontificato. I suoi “nemici” (e, anche da morto, ne ha ancora tanti) lo accusano di aver affossato il Vaticano II, e invece, a rileggere la storia senza pregiudizi ideologici, lui ne è stato un fedele quanto creativo esecutore. Si pensi alle sue encicliche sulla nuova immagine di Chiesa: una Chiesa vista nella sua natura trinitaria, un insieme armonico di unità e molteplicità.

Si pensi ai suoi “mea culpa”: un’azione costante, coraggiosa, spesso non capita, per purificare la memoria di un intero millennio, segnato dai tanti tradimenti del Vangelo perpetrati dai cristiani. E così i viaggi, per rafforzare e rendere visibile l’universalità del cattolicesimo. Così le prime volte di un Papa in una sinagoga e in una moschea: a significare la volontà di Roma di intensificare il dialogo con le altre religioni. Così, soprattutto, lo sviluppo impresso ai temi della “Gaudium et spes”: con l’impiego di categorie inedite, proprie della teologia morale, per parlare con parole nuove – e con un nuovo atteggiamento – della famiglia, della giustizia, e contro la guerra, qualsiasi guerra.

Ma, tutto questo, fu sostanzialmente opera solo di un Papa. Per il Giubileo del Duemila, Giovanni Paolo II invitò i vescovi a fare un esame di coscienza su come il Concilio fosse stato applicato nelle loro diocesi, e quindi partire da lì, da quella riflessione collettiva, per avviare una “nuova evangelizzazione”. Da non credere, ma non rispose neppure un vescovo! Una nuova drammatica conferma di come la comunità cattolica mondiale fosse guidata da un episcopato per lo più impreparato, e chiaramente non disposto a cambiamenti che avrebbero comportato perdite di potere. Un Papa, da solo, senza l’aiuto e il sostegno dei suoi più diretti collaboratori, non avrebbe certo potuto mettere in moto una grande riforma!

Del suo successore, Joseph Ratzinger, si sapeva come non fosse stato troppo soddisfatto delle conclusioni del Vaticano II. E lui non lo nascose mai, da perito conciliare, da arcivescovo, ma poi anche da Papa. Pochi giorni prima delle dimissioni, fece un discorso al clero romano, criticando apertamente l’“aggiornamento” roncalliano e, in particolare, la costituzione “Gaudium et spes”, ritenendo – per sue convinzioni dottrinali – che la Chiesa non fosse “parte” del mondo. Detto questo, però, nessuno potrà permettersi di dubitare della sincerità e della volontà di Benedetto XVI di risolvere, nel segno della riconciliazione, alcuni dei problemi più spinosi che erano sorti nel post-Concilio. Pertanto, non fu responsabilità di papa Ratzinger, se questi tentativi fallirono, e ottennero proprio il contrario di quanto il Pontefice aveva sperato. Come il discorso alla Curia romana, sul dilemma riguardante l’interpretazione del Vaticano II – c’era stata continuità o discontinuità con la Tradizione e il magistero precedente? – e che, invece di favorire un incontro positivo tra le diverse visioni, causò un certo depotenziamento della grande svolta conciliare. O come l’operazione compiuta per mettere fine allo scisma lefebvriano, ripristinando la Messa in latino di san Pio V: una decisione ardita, generosa, ma che, volutamente e colpevolmente strumentalizzata, provocò un notevole indebolimento della riforma liturgica. E non finì lì.

Ci fu anche un infoltimento delle schiere del movimento tradizionalista, appunto per la maggiore credibilità che aveva acquisito con la concessione pontificia, e quindi per la maggiore attrazione che avrebbe potuto esercitare. Un fenomeno che, dalle roccaforti del conservatorismo europeo, si era via via allargato, estendendosi come una macchia d’olio negli Stati Uniti, e diventando la base su cui andò innestandosi un dissenso sempre più vasto, sempre più aperto, nei confronti del Papa che era frattanto subentrato a Benedetto XVI, il primo Papa che veniva dall’altra parte dell’oceano. Jorge Bergoglio non aveva partecipato al Concilio, ma aveva “imparato” il Concilio in quel grande laboratorio ecclesiale che è l’America Latina. Da qui, perciò, la predisposizione, una volta Papa, a privilegiare le riforme pastorali rispetto a quelle istituzionali. Così come, dall’essere un gesuita, portato al pragmatismo, alla semplificazione, discendeva la sua contrarietà nei riguardi degli ideologismi, dei bizantinismi teologici, delle discussioni dottrinali che sapevano tanto di accademismo.

E allora, tenendo conto di questo, si potrà facilmente capire perché il nuovo Papa, nella sua esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, abbia disegnato il profilo di una Chiesa caratterizzata da una “conversione pastorale e missionaria”, capace di “trasformare ogni cosa”. Una Chiesa che deve “annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura”. Una Chiesa dove tutti possano sentirsi “accolti, amati, perdonati”. Una Chiesa povera tra i poveri, povera con i poveri.

Gianfranco Svidercoschi

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