La virtù morale della temperanza

La Catechesi della Chiesa Cattolica al capitolo 1809 definisce la temperanza come la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. Viene altrimenti definita sobrietà o moderazione.

È in sostanza un invito a contenere gli eccessi e ad assicurare l’equilibrio nella gestione delle proprie azioni: in medio stat virtus recita un brocardo latino ma già in Aristotele si trova che alcuni vizi restano al di sotto ed altri stanno al di sopra di ciò che si deve, sia nelle passioni, sia nelle azioni, mentre la virtù trova e sceglie il mezzo (Etica Nic., II, 6, 1107a); in maniera ancora più specifica ed eloquente per le varie situazioni, Orazio scriveva est modus in rebus; sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum (esiste una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto Satire, I, 1, 106-107); concetti analoghi si trovano in Cicerone ed in Ovidio, nella letteratura medievale e possiamo dire che sono entrati nel pensiero comune, con una doverosa precisazione: equilibrio tra due eccessi non vuol dire affatto compromesso e ricerca di soluzione di comodo che vada bene ad entrambe le tesi, che sia parte dell’una e parte dell’altra in modo che ognuno si senta parzialmente appagato. Anzi. L’equilibrio sta nell’espungere dalla soluzione ogni pretesa di aggiustamento di comodo e di trovare il punto adatto per ogni singola ipotesi, per cui certamente la citazione di Orazio è molto più efficace della tesi aristotelica, che va letta con dovuta perspicacia.

La temperanza non è quindi la soluzione di comodo, non è la via di uscita, non è neanche accontentarsi di poco; la temperanza è il freno agli eccessi delle passioni e degli istinti, è il cuore che tempera gli impulsi, che supera gli argomenti della ragione e si affida alla sapienza per sopportare la pazienza: aggiungete alla fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza (2Pt 1,5-6). Solo chi è temperante, chi ha sperimentato la misura delle cose può avere pazienza e sopportare, aprendosi alla pietà ed alla carità; solo chi è in grado di scoprire dentro di sé l’ordine dei valori può affacciarsi con calma e sicurezza a professarne l’esercizio. Senza temperanza non c’è misura, non c’è armonia, non c’è neanche sintonia: la mancanza di temperanza ci rende inadeguati ed inopportuni, nei pensieri come nei comportamenti, stonati, fuori luogo, estranei.

Il Conte Rodolfo torna ai luoghi ameni dell’infanzia e rimane incantato da Amina che sonnambula: no, non sarai tradita, alma gentil, da me gli fa cantare Bellini e poi, pur attratto da tanta beltà ed in preda al desiderio, risoluto riesce a far prevalere l’onestà di rispettare la giovine, giglio innocente e puro, conserva il tuo candor!; contro le apparenze del libretto di Romani, Bellini escluse che il Conte fosse il padre dell’orfana Amina, cresciuta al villaggio, poiché voleva far emergere in lui questa virtù di rispettare la innocente.

Quanti saprebbero rispettare l’altrui persona colta in un momento di abbandono? Quanti rinuncerebbero ad approfittare della situazione? Quanti riuscirebbero a fare appello alla propria temperanza per far emergere l’onestà? È di fronte all’occasione favorevole che s’annida il maligno e ci impone di dominare gli istinti e lasciare esprimere il cuore; la temperanza, coltivata come abitudine al controllo ed alla misura, ci può consentire di non precipitare in condotte riprovevoli di cui ci potremo pentire. Il Conte, senza l’aiuto della sua temperanza, radicata nelle sue nobili radici, avrebbe abusato de La Sonnambula rubandole il radioso futuro.

Le virtù cardinali sono punti di orientamento nella condotta morale cui dobbiamo riferirci per esprimere al meglio le nostre capacità di discernere il bene ed inseguirlo; la temperanza ci consente anche di non impedire al prossimo di perseguire liberamente il proprio bene, cui dobbiamo rispetto.