Vi spiego perché noi terapeuti siamo dei guaritori feriti

Chi non ha mai pensato ad un percorso di psicoterapia? Magari perché ne ha sentito parlare, o perché l’ha visto in una serie televisiva e si è incuriosito, o perché un amico/un’amica ha raccontato di “essere in terapia”. Dunque, un punto è certo: oggi se ne parla. Nonostante un certo (giustificato) pudore, l’argomento è diventato negli ultimi anni meno tabù, perciò dire di avere un terapeuta di riferimento può costituire una condivisione possibile.

Ma di cosa si tratta? Andare in psicoterapia cosa vuol dire e cosa succede tra quelle quattro mura chiamate tecnicamente setting?

Un noto psicoterapeuta, Irvin Yalom, ne parla come di un viaggio, ed è una metafora che mi piace molto, forse perché amo andare in posti nuovi, muovermi dal mio ambiente quotidiano, esplorare. Proviamo ad utilizzarla anche qui.

Pensiamo, allora, ad un’avventura intrapresa da due compagni di viaggio, “un termine che abolisce le distinzioni tra loro (coloro che soffrono) e noi (i guaritori)” (Il dono della terapia, p. 24). I due compagni hanno ruoli e competenze diverse, ma decidono di iniziare un itinerario, insieme.

La partenza è quel momento naturale in cui uno dei due sente che è ora di mettersi in gioco, e le motivazioni sono le più diverse. Non bisogna pensare – e spesso accade – che sia necessario un trauma, un dramma enorme, un problema spaventoso che costringa ad andare dallo psicologo. Direi che questo appartiene più alla mitologia che alla realtà.

Il viaggio inizia quando Francesca desidera stare meglio, vuole cercare di essere più felice, sente che alcuni aspetti della sua vita – amore, lavoro, figli – potrebbero migliorare, ci sono potenzialità ancora inesplorate. Forse Marco ha bisogno di fare il punto della situazione: si è chiuso un progetto e se ne sta aprendo un altro, ci starebbe proprio bene un bilancio di vita, e poi non si è mai dedicato del tempo per sé. Oppure è finita una relazione sentimentale, che ha lasciato dei segni belli e meno belli e Paolo ha necessità di capire a fondo cosa è successo nella sua storia, per non ripetere gli stessi passi e perché ora ha conosciuto una donna che gli piace molto, e non vuole soffrire e far soffrire di nuovo.

È il momento giusto per partire.

Lo dice il cuore, lo dice il momento di vita.

Verso dove andare, all’inizio non è chiaro a nessuno dei due, ciò che è sicuro è che uno dei viandanti, il terapeuta, vuole affiancare il suo compagno, non si tira indietro, decide di esserci per lui e con lui. La direzione e le tappe si apriranno poco per volta, man mano che la relazione si va costruendo e la fiducia cresce. La mappa sarà disegnata da entrambi, quando si edifica, giorno dopo giorno quello spazio “terzo” tra l’uno e l’altro, dove il processo si realizza grazie ai due protagonisti.

A volte si temono percorsi infiniti come lunghezza“è vero che dura tanti anni?”. Ma no. Quando facciamo un viaggio decidiamo noi quando rientrare. È così anche per la psicoterapia, insieme, sempre insieme, i due avventurieri sentono in modo del tutto naturale – così come è iniziato – che il tempo si sta concludendo. Nulla di forzato o imposto dall’alto. Si tratta di un processo attivo, a-due dall’inizio alla fine. Non c’è uno che decide per l’altro e lo trascina secondo criteri che non è dato conoscere. E non è neppure un pacchetto preconfezionato. Dura quanto ciascuno sente di farlo durare.

Aggiungo ancora un aspetto che mi sta molto a cuore, e che traggo ancora dallo stesso Autore: il nostro compagno di viaggio può arrivare più lontano di dove siamo arrivati noi, con i nostri percorsi di vita, intendo noi terapeuti. Alcune esperienze sono straordinarie, e le persone che affianchiamo arrivano veramente più lontane di dove siamo arrivate noi, con i nostri itinerari esistenziali.

Sia chiaro: c’è una competenza che fa da sfondo allo spazio terapeutico, la simpatica vignetta del “siamo tutti un po’ psicologi” la lasciamo ai luoghi comuni che fanno sorridere, ma che non vanno oltre. Il terapeuta ha alle spalle un lungo percorso professionale e personale e non potrebbe essere altrimenti, come è facile intuire. Ci sono modelli e pratiche diverse dietro ogni Scuola di pensiero. Tutte, però, hanno il medesimo obiettivo: far sì che la persona tiri fuori il meglio di se stessa, cessi di stare dentro trappole che la fanno sentire sempre più male, smetta di ripetere copioni che le riducono le energie vitali. Oggi, del resto, lo sguardo terapeutico va sempre più verso la compassione, la capacità, cioè, di fare alleanza con le proprie imperfezioni. Ma questa dimensione merita ben altro approfondimento.

Concludo con un’ultima immagine del nostro Yalom, che faccio mia: noi terapeuti siamo dei guaritori feriti. Abbiamo vissuto drammi, fatiche, soddisfazioni e mettiamo a disposizione questa nostra esperienza, unita alla competenza, di quanti vogliono darsi una nuova speranza di benessere.