Perché la superbia rende ciechi di fronte la vita

Verdi conobbe il successo alla sua terza opera, a ventotto anni, quando già aveva perduto i due figlioletti e pure la giovane moglie; si trattava del Nabucco, resa famosa dal celebre coro degli ebrei al terzo atto Va pensiero. Ma il vero pezzo forte del dramma sta nel personaggio che dà nome al titolo, il quale, nel concertato finale del secondo atto, deridendo il dio dei babilonesi ed il dio degli ebrei dichiara: “Non son più re, son Dio! La didascalia descrive che “rumoreggia il tuono, un fulmine scoppia sulla corona del Re; Nabucco atterrito sente strapparsi la corona da una forza soprannaturale” e la macchina teatrale, sin dal lontano 1842 della prima alla Scala, si industria per rendere al meglio questo efficace colpo di scena che scuote gli spettatori.

Perché tanta forza in questa scena? Perché il Re aveva travalicato i suoi limiti umani proclamandosi Dio, superando quel confine dell’umanità da cui discende il rifiuto ad accettarne la pretesa perché la superbia è inaccettabile.

Si può subire, per diverse ragioni, legate alla condizione servile in cui si è costretti o alla salvaguardia dei propri beni ed affetti minacciati da violenza, dalla propria incapacità di reagire, dalla insicurezza, dalla convenienza, ma è impossibile accettarla. Se solo il superbo ne avesse consapevolezza, si ridimensionerebbe. Perché è qui il problema della superbia: la non consapevolezza della propria dimensione, non soltanto spaziale, ma anche quantitativa. Il superbo non vede i suoi limiti, non comprende i propri errori, non percepisce la reale misura di sé, non intende il ruolo che ha, non è in grado di relazionarsi con gli altri. Talvolta può celare un complesso di inferiorità ma il vizio si esprime in una particolare considerazione della propria autosufficienza e dei privilegi che ne pretende relegando gli altri in una scarsa considerazione, con ciò superando anche il difetto dell’egoismo in quanto travalica il proprio interesse ma si pone in relazione di superiorità nei confronti del prossimo.

Il superbo ignora il comandamento di Cristo che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv. 15,12); il superbo non riconosce Dio, non conosce Dio; il superbo sposa il peccato di Lucifero.

Sant’Agostino, negli anni della maturità, alla decadenza dell’impero conseguente al sacco di Roma di Alarico ed al dilagare dei vizi terreni oppose la città di Dio: “Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé. … In quella domina la passione del dominio nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella carità i capi col deliberare e i sudditi con l’obbedire. Coloro che non poterono conoscere Dio… si smarrirono nei propri pensieri e fu lasciato nell’ombra il loro cuore stolto perché credevano di esser sapienti, cioè perché dominava in loro la superbia in quanto si esaltavano nella propria sapienza. Perciò divennero sciocchi e sostituirono alla gloria di Dio non soggetto a morire l’immagine dell’uomo soggetto a morire” (De civitate Dei, XIV, 28).

Esistono due modi di esprimere la propria superbia: uno consiste nell’intima convinzione di considerare se stesso infallibile, onnipotente, capace di rispondere ad ogni domanda e di risolvere ogni problema, senza alcun aiuto ed anzi sprezzandolo e qui l’altro, ponendosi al disopra degli altri ed esprimendone non solo l’incapacità e l’inadeguatezza ma addirittura l’inferiorità. Di fronte a tale delirio sembrerebbe impossibile riuscire a trovare il bandolo e riavvolgere la matassa per poi dispiegarla nel modo giusto: il superbo ha connotati caratteriali inconfondibili ed insuperabili, ha pensieri duri a rimuovere, è naturalmente orientato verso l’idea di autoreggenza. Quale allora la via per uscirne?

Al solito, la volontà.

Questa forza di pressione invincibile, che deriva dalla profonda convinzione di procedere in un modo determinato, è signora di ogni azione: è il suo fine che può oscillare tra il discutibile ed il condiviso, tra il retto e l’iniquo, tra il bene ed il male. Occorre volere per contrastare il delirio di potenza: ma volere sottomettere le proprie azioni alle virtù e non ai vizi, consapevoli del nostro fine e della nostra fine.