La strada da fare ci può solo unire

Avevo deciso di tacere. Per quattro mesi ho disertato gli appuntamenti con la comunità dei lettori e con la redazione. Pian piano il dibattito si arroccava su posizioni intransigenti, il dialogo culturale si riduceva ad un monologo monotematico senza possibilità di confronto, l’afflato democratico si radicalizzava a favore della stretta operativa proposta dai timonieri, non c’era spazio per la voce difforme, le regole sono precipitate, la paura si è diffusa, il popolo si è adeguato. Brutta aria, aria di imposizioni, parole grosse, inascoltate da decenni, conquiste polverizzate, spazio alla risolutezza di pochi, fine del dibattito, ordini da eseguire, limitazioni, divieti. Silenzio. Anche visivo. Parla solo chi sa secondo chi decide. Gli altri no, non sanno, non sono graditi.

Non sono un visionario, non mi sono eccessivamente impressionato: ho visto contraddire settant’anni di regole, ho visto i fantasmi del passato, ho risentito parole che erano sepolte: resistenza, rivoluzione, dittatura, e poi esigenze superiori rispetto ai diritti individuali, sacrifici per il bene collettivo, chi non è d’accordo è fuori.
Il Governo si è rafforzato ed autonomizzato nell’emanazione delle norme, il Parlamento si è
svuotato, sono comparsi i Comitati di esperti nominati dal Governo, l’esigenza di immediatezza ha cancellato gli appalti pubblici, le regole di concorrenza, la trasparenza, la paura ha bloccato le reazioni, ha sopito gli animi, sono ricomparsi autori come George Orwell (1984) e Günther Anders (L’uomo è antiquato), è ripartita la caccia al diverso, stavolta non più fisicamente o emotivamente, ma intellettualmente; il pensiero è unico, annunciato quotidianamente, dagli esperti, dai saggi, dal regime.

Non c’è più spazio per chi si interroga, per chi dubita, per chi non comprende e non vede le ragioni di questo scempio dell’impianto costituzionale, delle regole di dialogo, di chi non vuole credere; anzi, è diventato il nemico da colpire, da tenere lontano, da emarginare.
Ed ho taciuto, anche per non disturbare, chiuso nella mia malinconica incomprensione delle nuove regole di efficienza, pensando a tempi migliori.

Ma una telefonata mi ha scosso dal torpore, mi ha fatto capire che tacere non è mai la soluzione, può essere un’esigenza individuale piuttosto che di opportunità ma chi mi telefonava aveva affrontato tante volte il demonio, aveva il coraggio della parola anche di fronte allo scempio della dignità, aveva fondato un giornale per dare voce agli ultimi. Mi ha parlato con la sua voce serena e pacata, che ho ascoltato nei momenti difficili ed in quelli di gioia, sempre attenta, sempre presente, sempre lucida ma intrisa di un sentimento puro che può nascere solo da un cuore sincero, che dolcemente proposta arriva forte e chiara come una sveglia, che ti fa capire che non puoi tacere, non è la risposta giusta, che qualcuno, anche uno solo, ti potrà leggere ed ascoltare e che per quell’uno solo bisogna parlare.

Il frastuono esterno spesso ci distoglie dai veri messaggi che provengono dal nostro profondo, cerchiamo di allinearci ad un navigante piuttosto che al suo oppositore, tendiamo a dividerci in fazioni, ci schieriamo, diamo spazio all’intransigenza, rompiamo il dialogo, urliamo per essere intesi e se non possiamo taciamo.

Hai ragione Direttore, ancora una volta; sei tanto più giovane di me ma affondi le tue radici in una forza interiore ed in una certezza che il tuo ruolo di prete operaio, di sacerdote per la strada, di sostegno ai bisognosi, hanno forgiato e temprato e poche parole ti sono bastate per risvegliare un dormiente e richiamarlo al lavoro.
Non serve urlare, non serve tacere: occorre una voce calma e sicura, chiara e determinata, attenta ed esortativa per trasmettere quello che c’è di buono in ciascuno di noi e che serve maggiormente per la causa comune. Il mondo – specialmente in momenti come questi – non ha bisogno di proclami e di risolutezza; è più utile rimanere in ascolto, avere certa la meta e proseguire il cammino poiché la strada da fare ci può solo unire.