Rosario Livatino, un modello di magistrato

Il 21 settembre 1990 Rosario Angelo Livatino veniva ucciso mentre, a bordo della sua utilitaria, dalla propria abitazione, a Canicattì, si recava al lavoro al Tribunale di Agrigento. Dopo qualche giorno, il 3 ottobre, avrebbe compiuto 38 anni. Proclamandolo beato, il 9 maggio 2021, la Chiesa ha reso un dono grande ai fedeli, e in particolare alla comunità dei giuristi, perché – facendo emergere per intero la sua figura – esorta tutti coloro che hanno a che fare col diritto, soprattutto i magistrati, a non considerare un problema avere una fede viva e radicata.

Mi spiego: premesso che per un giudice è essenziale essere preparato, rigoroso e oggettivo, quanto la sua religiosità viene percepita come limitativa di tali qualità? Chiederselo non è astruso: l’egemonia del correct non risparmia il mondo giudiziario e forense, al cui interno impera la pretesa di neutralità, anche confessionale, quale garanzia di imparzialità, e quindi guarda con sospetto il portatore, pur sano e non invasivo, di virus religioso. Come storia e cronaca insegnano, la sbandierata neutralità non ha però mai precluso la militanza – nel senso proprio del termine – in correnti e la condizionabilità ideologica: l’invenzione e il lancio dei c.d. nuovi diritti, pervenuta fino alle più elevate giurisdizioni, ne costituiscono conferma. Vi è da immaginare che, per ossequio al correct, larga parte dei messaggi ufficiali che oggi saranno diffusi, in occasione dei 32 anni dalla sua tragica morte, continueranno a trascurare il suo fondante profilo di santità.

Qual è la particolarità di Livatino magistrato? Non è stato lo stratega del contrasto alla criminalità mafiosa, come Giovanni Falcone: cui si deve l’avere per la prima volta, attraverso il maxiprocesso di Palermo nella seconda metà degli anni 1980, permesso la visione d’insieme di Cosa nostra, essenziale per dimostrare il vincolo associativo, e per applicare la norma dell’art. 416 bis, da poco introdotta nel codice penale; e l’avere poi trasferito questa prospettiva sull’intero territorio nazionale, nel periodo di lavoro al ministero della Giustizia. Né è stato il generoso realizzatore di tale strategia sul territorio siciliano, in particolare nel distretto di Palermo, come Paolo Borsellino.

Livatino è stato dapprima pubblico ministero, poi giudice, di una città di provincia: in Italia si è saputo di lui il giorno in cui è stato ucciso, prima era sconosciuto. Eppure è stato un modello di magistrato: quello che, senza clamore, in un luogo periferico, svolge il suo lavoro con elevata professionalità. Dava fastidio alla stidda operante sul territorio agrigentino anche perché redigeva provvedimenti di sequestro e di confisca dei beni di provenienza mafiosa: oggi sono fra gli strumenti più diffusi di contrasto delle organizzazioni criminali, all’epoca – con una legislazione ancora poco articolata – erano poco praticati. Per questo facevano ancora più male: il mafioso non gradisce finire in carcere, ma se accade è nel conto; se però gli sottrai i beni, lo hai colpito nell’onore e nella credibilità. I decreti di prevenzione patrimoniale a firma di Livatino erano scritti così bene, che reggevano ai gradi successivi di giudizio.

Non ha fatto solo questo, ma per questo ha pagato con la vita. Senza enfasi, senza mai apparire, rispettando gli imputati e le loro garanzie difensive; parlando in pubblico solo tre volte, per tenere due conferenze e una orazione funebre, dal contento più attuale oggi rispetto al momento in cui le ha pronunciate.

Tutto questo è accaduto nonostante o grazie alla fede in Cristo? “Il compito del magistrato” – sono sue parole – “è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.

Dai devoti al correct sarebbe interessane sapere: chi ragiona così arricchisce o depaupera l’esercizio della giurisdizione?