Roma sta male ma può guarire, ecco come

E’ apoditticamente evidente che Roma è abbandonata a sé stessa. Tutti coloro che più di un anno fa si risolsero a dar credito ad un’offerta amministrativa fondata su parole d’ordine condivisibili (peraltro, le stesse dei primi anni ‘90) quali onestà, rigore, merito, trasparenza, buon governo della città, ad oggi, non trovano alcun riscontro concreto. E, si badi bene, questa osservazione non ripristina, non riaccredita le forze politiche precedenti. Chiunque sia in buona fede sa che Roma ha subito scorrerie e razzie trasversali che hanno generato una classe dirigente di piccolo cabotaggio che, negli anni, l’ha depauperata delle sue ricchezze principali, la centralità culturale, la proiezione europea ed internazionale.

Oggi, come allora, non c’è (con le meravigliose eccezioni di un forte impegno associazionistico) nessuna base di soggettività sociale che coinvolga la cittadinanza romana (pur nella diversità degli orientamenti politici) in un comune disegno di governo virtuoso della città, in tutte le sue declinazioni, da quelle più banali come la pulizia delle strade a quelle più complesse come il riordino urbanistico della città.
Il sindaco di Roma uscito dalle elezioni del 2016, più degli altri del passato e più dei suoi concorrenti, porta su di sé la responsabilità del cambio di rotta. Chi l’ha votata si aspettava il grande cambiamento, si aspettava, a mio parere, di diventare protagonista della città, non nelle forme propagandistiche ed urlate del grillismo, ma nella sostanza delle cose concrete.

Non intendo parlare del succedersi di assessori, segretari generali, capi di gabinetto – questo non è un attacco politico (figurarsi) – ma del riavvicinamento della città amministrativa al quella delle persone si deve parlare.

Un reporter di stretta osservanza grillina ha recentemente parlato di Roma, descrivendola come la migliore delle città possibili: bella, ordinata, impeccabile. Ecco, i sindaci di un tempo se ne infischiavano di commissionare celebrazioni della città, perché sapevano che sarebbero stati irrisi da tutti. Ma lei, sindaco Raggi, che certamente non ha commissionato quel blog e non può condividerlo, come intende marcare una distanza morale da quei sindaci?

Io credo che il suo elettorato si aspettasse un sindaco amichevole, di visibilità immediata, sincero e giusto che operasse per una città bella, buona ed amichevole. Di qui, un consiglio che, lo dico per non apparire inutilmente generoso, corrisponde a ciò che in futuro si dovrà fare con una nuova amministrazione comunale.

Non dia retta né a Grillo, né a Casaleggio, né ai cortigiani strutturati. Si affidi, cercandoli uno per uno, alle brave persone che l’hanno votata e che hanno ancora voglia di dirle che Roma è sporca da far vergognare, nei quartieri borghesi come in quelli popolari, è piena di violenza che è figlia dell’assenza di coscienza civica, non funziona in nessuno dei servizi essenziali ad un livello comparabile con la media dei servizi essenziali delle città italiane del centro-nord ed il suo verde, che la connota come una potenziale città giardino, è ridotto a cespugli informi o a fogliame secco accumulato nelle strade. Guardi che i cittadini che votano non hanno piacere a denunciare se non ce ne sia motivo (salvo che non siano agenti di partiti avversi), anzi hanno un bisogno, ormai attutito dalla disperazione, di credere nel futuro della loro città.

Volutamente, qui, non esaminiamo la caduta di ruolo della città politica perché ci sembra che possa essere in qualche modo ammortizzata dalla città vitale della produzione e dei servizi.

Qui, si vuole dire che dalla crisi si esce solo se il Sindaco di Roma diventa uno di noi ed è capace di generare la solidarietà popolare della città, la partecipazione a ciascuna delle sue funzioni. Per esser più chiari, non sarà con una riforma della burocrazia (che pure è necessaria) che si correggerà il declino della città, bensì con una presa in carico – corale – di tutti i suoi problemi da parte di ognuno di noi per la sua parte di voglia di condividerne il futuro. Il sindaco è tale se, secondo la lezione municipalista della tradizione culturale del nostro paese, diventa il campione della sussidiarietà, uno di noi.

Ecco, le elezioni, secondo le regole della democrazia scandiscono periodi di tempo durante i quali gli elettori debbono verificare la corrispondenza tra ciò che è stato promesso e ciò che viene realizzato. Gli eletti non debbono cercare scuse puerili, gli elettori debbono farsi sentire. Ma se proprio si interrompe il vincolo fiduciario instaurato con l’elezione, non si deve chiedere al sindaco di dimettersi, ma operare perché autonomamente si dimetta. Nel frattempo, gli elettori, i cittadini lavorano essi stessi per la città, nel proprio interesse e per lealtà reciproca tra di loro e con i principi democratici.