L’importanza di riflettere sul valore della memoria

Un lucido intervento apparso domenica sul maggior quotidiano italiano mi induce a riflettere sul valore della memoria, non quella che ci consente i ricordi che costituiscono le autostrade della nostra vita, ma la celebrazione della memoria di fatti, meglio di misfatti, che hanno caratterizzato, purtroppo negativamente, la storia della Repubblica: stragi, omicidi di esponenti di potere, di uomini chiave della vita pubblica, disastri naturali dovuti ad errori umani od ad inefficienze nei soccorsi, calamità mal gestite, tutte ferite ancora aperte sulle quali ancora non si concludono, non dico le indagini ma neanche le ipotesi per comprenderne non solo gli autori, ove coinvolti, ma finanche le ragioni.

La vivace analisi da cui ho preso spunto parla di pedagogia della negatività ed immagina un giovane adolescente che si affaccia alla vita autonoma chiedendosi il perché di queste celebrazioni ancora oscure nelle cause e, forse, pensa di vivere nel paese sbagliato. Certo, se ricordiamo le cose negative e, principalmente, nella loro negatività ipotizzando colpevoli non identificati ma oscuri poteri, sarà difficile andare fieri del proprio passato. Una volta, una ventina di anni fà, in gita a Mosca la guida ci accolse con una dichiarazione pregiudiziale: “La storia è nota, in giro ne troverete i simboli, che nel bene e nel male ci appartiene; noi non la celebriamo e non la condanniamo: è lì, non la tocchiamo, non saprei rispondere alle vostre curiosità; noi andiamo avanti”.

Sembrerebbe un tagliare corto su argomenti imbarazzanti ma a ben riflettere è l’atteggiamento più utile; sicuramente è giusto trarre utilità dagli errori del passato ma c’è mai bisogno di qualcuno, magari peloso, che ce lo ricorda? Se li abbiamo vissuti li conosciamo ed abbiamo imparato; se non li abbiamo vissuti ne abbiamo i ricordi che si sono tramandati, ma perché ce li debbono spiegare? E spesso proponendo la chiave uniforme di lettura convenzionata! Sorge allora il sospetto che le celebrazioni di questi eventi negativi vanno al di là della commiserazione nei confronti dei parenti delle ignare vittime (che pure danno segni di indifferenza, se non addirittura di insofferenza) e sembrano essere dettate dall’intento educativo degli spettatori in modo da poter classificare opportunamente, non adeguatamente, l’argomento. Geniale!

Accade un fatto, naturale o provocato, se ne coprono le cause e le responsabilità, si stende un bollettino ufficiale fornendo la versione proposta non solo dei fatti ma anche dei significati e dei sentimenti che devono suscitare, si stende il monito affinché le azioni future ne trovino la giustificazione ed il sostegno. Sul finire degli anni sessanta fu chiamata “strategia della tensione” (a proposito, da un giornale inglese cinque giorni prima della strage di piazza Fontana da cui ebbe inizio): si provocavano attentati per giustificare provvedimenti repressivi e rafforzare il potere dominante; poi le tecniche, culturali, si sono affinate ed alle azioni criminose, dirette o derivate, si è aggiunto il commento per indirizzarne i sentimenti di condanna e le reazioni conseguenti.

Quella stessa teoria del teorema strategico, che ancora appare in qualche idea, si rivelò presto sconnessa dal reale andamento degli eventi: gli attentati non determinarono nulla di quanto era stato ad essi attribuito, ed anzi la storia imboccò la strada opposta per cui una seria analisi degli accadimenti di quegli anni oggi porterebbe a definire quella stessa teoria come un prodotto del complotto strategico. È infatti in questa direzione che si muovono oramai le tesi più dibattute: si sostiene l’esistenza di un complotto internazionale, accreditato alla finanza mondiale più o meno esteso a non meglio individuati poteri forti, tra cui si annoverano banche, gruppi industriali, organizzazioni, religioni e stato, che determinerebbero, sia coi fatti sia con la lettura imposta degli stessi, il loro rafforzamento.

Sia pure, ma l’evoluzione storica ha quasi sempre sconfessato i programmi a lunga scadenza; ciò che qui interessa raccogliere della riflessione da cui sono partito è la necessità di invertire il segno negativo di lettura della storia del nostro paese perché solo da radici forti e solide, sane e prosperose può trarsi la linfa vitale necessaria a continuare a vivere. E lasciamo scrivere la storia a chi ne è stato protagonista, non a chi l’ha osservata in panchina o peggio ancora dalla tribuna.