Paolo VI, lungimirante timoniere di una Chiesa travolta dalla bufera

Alla fine degli anni Sessanta, la Chiesa di Paolo VI si trovò nel bel mezzo di una bufera. Era già scoppiato il contrasto sulla interpretazione del Concilio Vaticano II, tradizionalisti contro innovatori: la sindrome della “duplice frenesia”, come la chiamò Henri Bergson, perché gli eccessi degli uni scatenavano gli eccessi degli altri, e viceversa. Intanto, Hans Küng contestava l’infallibilità pontificia. Si moltiplicavano le fughe in avanti del cattolicesimo olandese. Cresceva il dissenso delle “comunità di base”. E mons. Marcel Lefebvre si avviava verso lo scisma. Nello stesso tempo, arrivavano venti impetuosi da fuori. Il Sessantotto fece irruzione anche nei seminari, nei monasteri, nelle parrocchie, con un numeroso abbandono di preti, religiosi e suore, con un vertiginoso crollo di vocazioni. L’Occidente veniva invaso dalla secolarizzazione, dal consumismo, con una diffusa laicizzazione degli stili di vita, dei costumi, dei valori, perfino dei sentimenti.

Ciò nonostante, la Chiesa seppe resistere. Grazie a Paolo VI, che ne tenne diritta la barra. E grazie al Concilio, che, rinnovandola in profondità, l’aveva per così dire “attrezzata” ad affrontare le intemperie, anche se impreviste. C’era stato un forte risveglio missionario e carismatico. La riforma liturgica, con le novità introdotte nella Messa, aveva ravvivato quella che, per non pochi credenti, rimane spesso l’unica espressione visibile di fede. Erano nati nuovi movimenti laicali, sopravanzando il vecchio associazionismo cattolico, e con un nuovo protagonismo dei giovani, delle donne. C’era però qualcosa che non andava, nell’opera di attuazione del Vaticano II. Qualcosa di cui ci si sarebbe accorti, purtroppo, molti anni dopo. E malgrado ci fosse stato anche un campanello d’allarme. Sonorissimo. Indicativo. Inquietante. Ma nessuno, allora, lo mise in collegamento con lo stato di incertezza che, affievolitisi gli iniziali entusiasmi postconciliari, si avvertiva nelle comunità cristiane.

Il problema della natalità, accantonato alle assise ecumeniche dal Papa per motivi di opportunità, era rispuntato fuori in termini roventi, e con toni polemici esasperati. Paolo VI, a quel punto, decise di riaprire la questione, e, per approfondirla, creò due commissioni, l’una di esperti, l’altra di cardinali e vescovi. Ora, lasciamo stare tutti gli errori che furono commessi, la fuga pilotata di notizie sulle risultanze dei due organismi e favorevoli a un cambiamento della dottrina morale. Come pure l’indecisione di papa Montini, il quale chiese un “supplemento di studi”, ma che durò troppo, due anni; mentre l’opinione pubblica, fraintendendo il senso di quel ritardo, si andò via via convincendo che ci sarebbe stata un’apertura verso un certo tipo di contraccezione. Lasciamo stare tutto questo, e restiamo alle conclusioni, drammatiche, di quella vicenda.

Proprio per la prolungata mancanza di informazioni, ma anche per essere stati da sempre abituati a sintonizzare la propria vita cristiana sulle norme, sulle regole, moltissimi credenti videro nell’enciclica Humanae vitae soltanto il no alla cosiddetta “pillola cattolica”. E niente invece dell’invito di Paolo VI alla “paternità responsabile”, della quale gli sposi avrebbero dovuto prendere coscienza. E che, spiegava il Papa, andava esercitata “sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente, od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita”. Parole che invitavano alla responsabilità, a confrontarsi con la propria coscienza. E che invece tanti cristiani non riuscirono a comprendere. O non vollero comprendere. E, questo, perché non erano stati aiutati – dai loro preti, dai loro confessori – a cogliere il senso autentico dell’insegnamento pontificio sulla paternità e la maternità responsabili. Quei preti, quei confessori, si erano “comodamente” attenuti all’interpretazione restrittiva del documento, al no alla “pillola”. Finendo così per gettare nello sconforto, e spesso per allontanare dalla Chiesa, centinaia di migliaia di coppie in crisi sul numero di figli da mettere al mondo.

Quel che accadde con l’Humanae vitae, si diceva prima, fu un chiarissimo campanello d’allarme, ma che sul momento nessuno capì. Solo molti anni dopo, si cominciò a scoprire quello che era stato, e continuava ad essere, il vero grave limite nell’applicazione del Concilio. Che cosa era successo? Che al popolo di Dio – ovverossia alla stragrande maggioranza dei credenti, che sono laici – i chierici non avevano raccontato, né spiegato, né peggio ancora fatto vivere il Vaticano II. Avevano parlato molto, questo sì, dei cambiamenti canonici, istituzionali, ma poco di quelli pastorali che interessavano i fedeli.

La gente aveva respirato il rinnovamento conciliare, attraverso specialmente la riforma liturgica, ed era riuscita anche a tradurlo nella propria vita spirituale. Ma restando sempre alla superficie, ai mutamenti esterni, la scomparsa del latino, gli altari voltati, la lettura dei brani della S. Scrittura, le “intenzioni dei fedeli”, lo scambio della pace. E dunque, senza mai arrivare a comprendere che, quel nuovo modo di pregare, non si fermava all’aspetto propriamente liturgico, ma sarebbe dovuto approdare a una nuova maniera di vivere la fede, di testimoniarla. Così, non solo non ci fu la partecipazione del laicato – e l’apporto che avrebbe potuto dare con tutta la forza e la varietà dei suoi carismi – all’attuazione e allo sviluppo delle prospettive aperte dal Concilio. Non solo questo, ma, venuta a mancare la maturazione interiore, la fede prese a inaridirsi anzitutto nelle coscienze, per poi impoverirsi fuori, fintanto a banalizzare il sacro. Basterebbe pensare a certe Messe domenicali, diventate consuetudine, semplice precetto da assolvere: il prete, ora, non girava più le spalle, ma continuava a monopolizzare l’azione liturgica, e l’assemblea dei fedeli continuava a far solo da scenografia. Basterebbe pensare a quanto abbiano perso di significato certe tradizioni, proprie della pietà popolare, legate spesso ai santuari mariani, e che alimentavano le radici spirituali della gente più semplice. Qualche esempio, da noi in Italia. L’Alto Adige, più di altre regioni, aveva conservato vari rituali, motivati dalla fede, che scandivano i momenti della vita quotidiana: come il segno della croce al mattino, la preghiera prima dei pasti e la sera. Non sono scomparsi, questo no; ma c’è da chiedersi quanto siano ancora espressione esteriore di sentimenti interiori, veri, sentiti. Oppure al Sud, le feste diocesane, con quelle coloratissime processioni in onore del patrono o della santa locale. Ma quante hanno ancora il “profumo”, e i valori, di quella religiosità antica, così naturale, schietta, forse anche un po’ ingenua, eppure così autentica, trasparente? Non di rado si sono ridotte a “spettacolo”, per richiamare turisti, gente da fuori. O, peggio, sono cadute nelle mani di qualche capoclan camorristico o mafioso, che se ne serve come copertura per i suoi traffici malavitosi.

All’origine di tutto questo, guardandosi indietro, c’è stato sicuramente il terremoto che sul finire del secondo millennio ha sconvolto l’umanità, sul piano antropologico, culturale e morale, prima ancora che su quello politico e sociale. Ma, per quanto riguarda specificamente la Chiesa cattolica, va ripetuto con molta onestà che, una buona parte delle responsabilità di questo degrado, sono da addebitarsi in particolare alla classe clericale. La grande stagione di rinnovamento dischiusa dal Concilio è stata in qualche modo vanificata dall’eccessiva concentrazione della gerarchia ecclesiastica su problemi interni, strutturali, istituzionali. E, di conseguenza, da una mancanza di progettazione e di continuità nell’azione pastorale e missionaria, da parte di molti parroci e anche di non pochi vescovi. Appunto da qui, è andata crescendo, nella massa dei cattolici laici, una forte ignoranza delle verità religiose. Seguita da un inevitabile progressivo indebolimento delle convinzioni di chi invece dovrebbe credere in queste verità. Con il risultato di provocare una sempre maggiore insignificanza della fede nella vita personale e sociale. Insomma, l’identikit dell’”indifferente”, nel vero senso della parola. Uno che non nega Dio, non si oppone a Dio, ma semplicemente lo ignora. O, almeno, pensa di farne a meno.