La britannica Oxfam, che opera meritoriamente per combattere la disuguaglianza, ha presentato un rapporto che ha fatto molto discutere. A Davos, in Svizzera, si sono riuniti alcuni dei principali leader del panorama politico, finanziario ed economico del mondo. Mancavano alcuni nomi importanti: da Trump (alle prese con lo shutdown) alla May (alle prese con Brexit). Presenti invece Bolsonaro (definito da Grillo “il Trump dei Tropici”) e (un tempo vituperata) Christine Lagarde del Fondo monetario internazionale. Presenti le altre delegazioni, ai massimi livelli.
Oxfam lamenta che buona parte della ricchezza mondiale è nelle mani di pochi Paperoni, sempre più potenti e ricchi. Nel dettaglio, soltanto 26 individui, nel 2018 possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone. Il monito è rivolto soprattutto ai Governi delle Nazioni, che dovrebbero aumentare le tasse in capo ai più ricchi e mettere il ricavato a disposizione dei più poveri, in termini di servizi sanitari e sociali. Anche in Italia si è aperto subito un dibattito su quanto sia ingiusto che alcuni Paperoni abbiamo denaro in eccesso, che potrebbe essere distribuito meglio. La domanda però è sempre la stessa: come? Di sicuro una maggiore tassazione non servirebbe a risolvere il problema delle disuguaglianze, che è di lungo corso e va affrontato con misure intelligenti e bilanci sovranazionali e non con i bilanci già esangui dei singoli Stati e con un debito pubblico al limiti della sostenibilità. In tal senso, l’idea di Oxfam per cui se l’1% dei più ricchi del pianeta pagasse l’1% in più di imposte sul patrimonio, molti dei problemi denunciati sparirebbero, sembra irrealizzabile: ma non perché i Paperoni si oppongano ma perché bisognerebbe approvare imposte colossali e straordinarie di cui nessun Governo si farebbe promotore per ovvie ragioni. Del resto, esistono Agenzie internazionali che si occupano di questi aspetti, cui i bilanci di singoli Stati contribuiscono. Inoltre, una importantissima mano la danno, da sempre, le organizzazioni di volontariato.
Quindi, Oxfam denuncia un fatto già noto. Qual è allora la novità? A prescindere dalla opinabilità dei criteri con i quali si stilano classifiche tra ricchi e poveri (notiamo, ad esempio, che tra i Paperoni di Oxfam stranamente mancano i magnati russi ed arabi oltre che i Fondi sovrani, spesso di proprietà di poche famiglie), occorre evidenziare – come si legge qui – anzitutto che per fortuna il numero dei poveri è certamente diminuito negli ultimi cento anni, pur aumentando in assoluto la popolazione. In secondo luogo, il report di Oxfam è stato letto solo in un modo: come un attacco al capitalismo che genera ricchezza esagerata a scapito dei più poveri. Ed è questo un leit motiv molto in voga, che però non sembra dare buoni frutti a giudicare proprio dalle diseguaglianze che ancora persistono. Meglio allora un cambio di passo. Il rapporto Oxfam potrebbe anche essere visto in altro modo: come un potente fattore di stimolo per chi vuole produrre ricchezza e benessere. Invece, sembra che l’aumento di ricchezza, che si traduce in maggiore crescita anche per i rispettivi Paesi, debba passare in secondo piano in nome di salvifiche quanto demagogiche misure perequative. Invertiamo la rotta. Perché invece non evidenziare la necessità di lavorare sodo per raggiungere risultati ? Perché non esaltare i talenti? Nessuno evidenzia che i risultati dei Paperoni di tutto il mondo sono tanto più a portata di mano se le imprese non sono soffocate da tasse eccessive, da orpelli burocratici o, peggio, da malaffare, ma sono sostenute da Governi che investono nella ricerca, nelle nuove tecnologie, nella istruzione, nella università, che favoriscono l’apertura di nuove grandi aziende in territori ancora depressi. Non è demonizzando la libertà di iniziativa economica privata che si inverte la rotta, ma incoraggiandola: sembrano parole scontate, ma così non è a conti fatti.
Nessuno dei commentatori, inoltre, ha evidenziato che tra i Paperoni di Oxfam sono presenti un 54enne (Jeff Bezos, classe 1964, ingegnere elettronico, figlio adottivo di un emigrato cubano, che a 30 anni lascia il suo lavoro da 223.000 $ annui per fondare Amazon nel garage di casa sua); due 45enni (accomunati da un'enorme passione per la matematica e l’'informatica: Larry Page e Sergey Brin co-fondatori di Google, classe 1973, sempre in un garage); un 47enne (Ma Huateng, classe 1971, co-fondatore di Tencent); il 34enne Mark Zuckerberg, (classe 1984, informatico e appassionato di lettere classiche, che trovò l’idea giusta nei dormitori di Harvard). Si tratta di persone che hanno molto studiato, certamente giovani e sconosciute sino a dieci o venti anni addietro ma che nel giro di pochi anni, partendo dai soli talenti, hanno raggiunto la vetta. Donano milioni e milioni di dollari in beneficienza ogni anno, ciascuna delle rispettive aziende garantisce centinaia di migliaia di posti di lavoro: eppure i 26 Paperoni sono oggetto di forti critiche. Una società che non seleziona i talentuosi, che non promuove l’individuo, che non favorisce una sana concorrenza, ma evidenzia solo i difetti di un sistema che, per quanto migliorabile, consente di creare ricchezza, innovazione, progresso e di migliorare la propria posizione, è destinata a fallire e ad implodere tra conflitti sociali. Sembra proprio questo il destino della vecchia Europa, che dei 26 Paperoni ne annovera solo uno che (strana coincidenza?) non ha creato ma ha ereditato la sua fortuna. La speranza è che anche da noi possano crearsi le condizioni affinché, in una delle prossime riunioni di Davos, qualcuno possa dire che sono nati nuovi Paperoni: magari sotto i 40 anni e con aziende dislocate al Sud Italia. Oggi, più che una speranza, sembra una utopia. A quando una Silicon Valley italiana?